Chiamata anche Barbagia centrale, la Barbagia di Belvì è parte di un più esteso territorio, che con i suoi chilometri abbraccia i versanti del maestoso massiccio del Gennargentu. Comprendente i comuni di Aritzo, Meana Sardo, Gadoni e Belvì, oltre all’importante ruolo geografico essa possiede anche un interessante trascorso storico, che la rese perfino divisione amministrativa, fiscale, elettorale e giudiziaria del Giudicato di Arborea. Un passato collettivo non generatosi dal nulla, ma che per consolidarsi ha potuto contare su vari alleati, tra cui le ex carceri spagnole di “Sa Bovida”.
Ubicato nel cuore di Aritzo (NU) e attualmente sede museale, “Sa Bovida” nacque con scopo preciso e una fama che tutt’oggi l’accompagna, in virtù del passato ruolo di prigione di massima sicurezza. Controllata dall’Inquisizione spagnola, il confine tra libertà e reclusione è infatti presente a partire dal nome “Sa Bovida”, traducibile come “La volta” e riconducibile a un passaggio con arco in legno e pietra a sesto acuto, ossia caratterizzato da sommità appuntita e non tondeggiante.
Punto di collegamento tra parte alta e bassa del centro abitato, l’ampia copertura funge da ingresso a una stretta scalinata, che con spediti gradini conduce all’ex edificio carcerario, rimasto attivo fino agli anni ‘40 del ‘900. Risalente al XVI secolo d.C., l’architettura – realizzata con fango, legno di castagno e roccia scistosa – era originariamente divisa in ambienti con postazione di sorveglianza, – mansione generalmente svolta da una coppia anziana del paese – celle maschili o femminili e perfino la cosiddetta “stanza dei verdetti”, dove i reclusi ricevevano la condanna finale dopo aver subito torture. A ciò si aggiungevano ulteriori elementi, tra cui una meridiana posta nel cortile interno, una botola per calare i detenuti nella cella sotterranea e spazi pensati per le donne ricavati dalla stanza del guardiano.
Categoria che subì a sua volta un trattamento disumano, le donne finite nelle carceri spagnole per l’accusa di stregoneria furono diverse. Malgrado i numerosi prigionieri vissuti lì dentro, – tra cui per esempio alcuni ufficiali francesi catturati durante un tentato sbarco di Napoleone – le detenute considerate streghe costituirono infatti una presenza importante entro “Sa Bovida”, soprattutto per forti convinzioni nei loro confronti dettate dall’ignoranza del periodo. Ritenute creature inquietanti e dai segreti oscuri, tali figure venivano viste con diffidenza poiché se da una parte si pensava avessero il dono di curare malattie, dall’altra si credeva fossero capaci di lanciare il malocchio, elemento che portò a soprannominarle “Bruxias” (streghe).
Tra timore e velata ammirazione, per una donna sospettata di stregoneria era quindi certo l’arresto e terribili soprusi, proprio come accadde a Tzia Antonia Usai. Vissuta ad Aritzo tra ‘500 e ‘600, Antonia era nota per la capacità di curare persone e animali per vie non convenzionali, fattore che la rese figura scomoda agli occhi di medici e sacerdoti. Proprio questi ultimi decisero di metterla in cattiva luce e l’accusarono di azioni mai commesse come uccisioni di bambini o terribili disastri, dicerie che portarono a torture in prigione, alla condanna del tribunale del Sant’Uffizio, all’esilio dal Regno di Sardegna e all’obbligo di portare il “Sambenito”, abito penitenziale con funzione di marchio.
Una vicenda personale comune a molte altre donne e che sopravvive tutt’ora nei racconti della mostra permanente “Bruxias”, allestita proprio all’interno di “Sa Bovida”. Dedicato alla Magia e Stregoneria in Sardegna tra XV e XVII secolo d.C., il percorso espositivo custodisce vari materiali, da oggetti usati a scopo curativo o divinatorio a strumenti di tortura, – tra cui spiccano la frusta, il “potro” (cavalletto), la gogna e le catene con collare – fino ad arrivare a sistemi di pressione psicologica come lo stesso “Sambenito”, immagini e documenti.
Le ex carceri spagnole di “Sa Bovida” si trovano in via Guglielmo Marconi 40 ad Aritzo, in provincia di Nuoro. Per raggiungerle, sarà necessario dal Municipio in corso Umberto 2 proseguire per circa 400 metri lungo la Strada Statale 295. Attualmente, le visite sono consentite dal martedì alla domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18 pagando un biglietto del costo di 3 euro. Per ulteriori informazioni, è possibile chiamare il numero 389.8731853 o scrivere all’indirizzo e-mail [email protected].