Bentrovati amici lettori,
per il nostro appuntamento di #ioraccontoaSH vi propongo un altro racconto della serie scritta per noi da Barbara Aversa Pacifico. La nostra “Daisy” è di nuovo protagonista di un breve racconto dalle tinte cremisi… o forse noir?
L’autrice Barbara è una giovane insegnante di un Liceo Scientifico romano, ma è anche una ballerina ed ha partecipato a numerosi spettacoli di danza ed occasionalmente si diletta come modella tra le bellezze della sua amata Roma. Ama scrivere da quando era bambina e all’età di sedici anni ha pubblicato il suo primo racconto in un’antologia dedicata agli emergenti. Da sempre scrive e collabora presso un noto quotidiano del litorale romano; ha realizzato interviste per riviste dedicate ai più giovani, e scritto recensioni di libri. È molto attiva con la sua pagina Ig @missparklingbooks che raccoglie migliaia di follower, e collabora con thrillernord.it in modo particolare con autori esordienti.
Per la lettura vi lascio una colonna sonora particolare che secondo me è azzeccatissima: Muse – Feeling Good.
Da questi link potete leggere i racconti già pubblicati “La mia candida cucina” e il “Il mio impeccabile salotto” e “Il mio ingombrante soppalco”, io vi do appuntamento tra due venerdì con un’altra storia, un altro genere.
Buona lettura
Aurora Redville
La mia ineccepibile terrazza
di Barbara Aversa Pacifico ‘Missparklingbooks’
Avete presente quel rumore placido che fa l’acqua in una vasca da bagno? È pacato e morbido. È velluto, intervallato da impercettibili goccioline che vorrebbero scavare il pavimento. Lentamente, in tutta la loro incorporea sensualità. E scorrono, implacabili e cedevoli, avvolgendo il mio corpo diafano ed abbandonato. E poi un movimento brusco, una reazione ad un brivido per il freddo improvviso, ed il calice di vino dal bordo della vasca si immerge nell’acqua colorandola di un cremisi brillante.
Quel rosso intenso mi lascia attonita, spalanco gli occhi e mi rendo conto che anziché essere assorbito dalla trasparenza della vasca mi avvolge completamente e scivola sul mio corpo. Diviene sempre più palpabile, oscuro ed opaco, fino a scorrere a fiotti tra le mie braccia, sulla punta delle dita che gocciolano copiose come se provenisse da me. Solo in quell’istante mi rendo conto che il fluido si è tramutato in sangue, colloso, vischioso e non riesco a liberarmene, pur tentando di sciacquare la mia carne quasi a purificarla, lui è lì, appiccicoso ed agglomerato. Provo a capire da dove proviene, mi osservo cercando la ferita senza vederne alcuna, ed all’impazzata mi guardo girando le braccia, le gambe, con il terrore di trovare uno squarcio nascosto ed insanabile e mi rendo conto di sgranare le ciglia folte ed incurvate ed apro le labbra senza avere la capacità di emettere suoni. Una ferita profonda ed immateriale mi invade senza che io possa avere possibilità alcuna per ripararla.
I brividi di freddo mi colpiscono come una scossa e solo nel fremito più profondo spalanco gli occhi, muta, tremante e terrorizzata.
Era un incubo.
Cerco il tepore del mio letto per recuperare una temperatura corporea che mi faccia smettere di battere i denti, ed afferro la coperta, scivolata via dall’agitazione del sonno. Sono le 9 passate e Fabio è già al lavoro. Recupero velocemente le informazioni sulla giornata e ricordo che questa sera daremo una festa molto importante per sancire un nuovo accordo concluso da mio marito, per la sua società. Più passa il tempo e più diventa brillante. Come se le idee sgorgassero repentine e continuative. Mentre io mi dedico al blog di cucina. Ho anche un discreto successo e riesco a sfogare un po’ di creatività. No, non è vero: mi annoio a morte.
Dopo essermi rasserenata, rispondo ai WhatsApp di Fabio sulla serata, lo tranquillizzo sul fatto di avere tutto sotto controllo – perché io ho sempre tutto sotto controllo – ed inizio le mie commissioni.
Alle 18 è previsto l’aperitivo con possibilità di affaccio in terrazza. Siamo tornati a Roma da qualche mese dopo un’assenza di quasi due anni. Il nostro appartamento è ancora più bello del precedente con questa immensa stanza vista Colosseo.
Non posso ancora crederci che sia così vicino.
E mentre sorseggio il mio caffè americano lo osservo, e mi soffermo sulla meraviglia che è la mia città. La sofferenza della separazione è stata straziante ma inevitabile. Ho dovuto proteggere la mia famiglia, Fabio ha dovuto farlo. Anche se non abbiamo mai detto una sola parola al riguardo, è stato indispensabile un allontanamento, almeno finché il suo lavoro (e la mia nostalgia) lo hanno permesso.
E questa è anche l’occasione per sancire il nostro formale ritorno, riprendere possesso dei nostri spazi e della nostra socialità.
“Non dare troppo nell’occhio, non esagerare con il vino, mostra interesse per il mio socio” sono state le principali raccomandazioni di mio marito sulla serata. E quindi avvolta da uno splendido tubino nero, regalatomi durante un incredibile week end di sesso sul lago di Bolsena, mi accingo ad affrontare la serata.
Musica jazz, il miglior catering della Capitale, flute di champagne sempre pieni.
Al solito, tutto ineccepibile.
Tento di introdurmi nelle conversazioni ma la maggior parte sono troppo specifiche e mi vedo sorridere semplicemente come una piccola ebete. Per fortuna ho un bellissimo sorriso. Mi accorgo intorno alle 20 che Fabio ha evidentemente infranto il punto due ma provo a non pensarci. Inoltre, non credevo che avrebbero partecipato così tante persone, praticamente tutti sconosciuti.
Esco a prendere un po’ d’aria fresca, mentre il resto della festa procede sui divanetti all’interno. Il mobile bar è un richiamo irrefrenabile per la maggior parte degli ospiti mentre mio marito ed il suo socio danno spettacolo, mi sembra addirittura di sentirli cantare. Si scambiano anche le giacche per le foto e mentre li osservo così intimi mi chiedo da quanto tempo lui sia riuscito ad entrare così in sintonia con un altro essere umano. È solo interesse? Perché mi sembra che effettivamente ci sia altro. Come è possibile che lui sia riuscito ad infiltrarsi in quell’oscuro antro umano che la gente comune chiama “amicizia”?
Vedo Fabio brindare di nuovo con Alex ed improvvisare un ballo imbarazzante mentre si appoggia alla sua spalla e lui ride di cuore, mostrando impeccabili denti candidi che spiccano sulla giacca blu elettrico presa in prestito da mio marito, che a sua volta ne indossa una verde prato, affatto sobria. Nessuno dei due lo è, devo ricordarmene per eventuali recriminazioni future.
Sulle note di Iron Sky mi appoggio alle grate mentre osservo l’imponenza e la maestosità del Colosseo. Resto ammaliata, ogni giorno. E mentre sorseggio il mio calice di Teroldego Rotaliano, mi sembra mi manchi l’aria perché accanto a me io lo vedo. È LUI. O forse è una reminiscenza di un’altra vita?
Gli punto i miei occhi spauriti incorniciati da folte ciglia, e provo a pensare mentre sento i battiti perdere il loro ritmo naturale. Il naso perfetto, la curva delle labbra, gli occhi brillanti sempre tristi, e quella giacca che copre fin troppo i polsi.
Trecce bianche, come può essere qui, a casa mia?
Lui guarda un punto indefinito avanti a sé e sembra non accorgersi di nulla. Ruoto il mio ovale verso di lui. Lentamente, quasi temendo di vederlo scomparire per sempre, come già accaduto, a causa mia. Come se potesse diventare etereo, impalpabile, fino a svanire di nuovo lasciandomi atterrita e sgomenta.
Un altro sorso al vino, solo per bagnarmi le labbra, permettendo loro di articolare un suono, uno qualunque.
“Ehi”. È un sussurro, come se non avessi coraggio. Lui si volta leggermente, come se non fossi lì. Come se neanche lui ci fosse.
“Sei la padrona di casa se non sbaglio” ed una smorfia tradisce la sua impassibilità.
“Così pare” sussurro, guardando nel calice rubino.
“Così pare” bisbiglia.
Restiamo avvolti in un ovattato silenzio, nonostante il frastuono all’interno inevitabilmente arrivi ad entrambi. Sono quasi due anni che non lo vedo e mi rendo conto che non è cambiato nulla nelle mie reazioni. E non trovo alcuna parola, non mi sento neanche spaventata dal fatto che lui sia qui, nei miei spazi, ad un passo da mio marito.
“Sei in compagnia?” domando, senza muovermi di un millimetro, come se il suono non provenisse da me, come se solo chiedere una cosa del genere ottundesse ogni mia facoltà cognitiva.
“Così pare. Ma non è il genere di compagnia che intendi tu. È un sostegno ai miei desideri messi a tacere da troppo tempo. E con desideri non intendo… questo” e mi indica malvolentieri scuotendo la testa, lievemente infastidito.
Non so cosa intenda e come una preda che sta per essere attaccata da uno squalo resto immobile. Vorrei chiedere a cosa si riferisce, ma preferisco rimanere con il dubbio.
A volte il dubbio può essere incredibilmente consolatorio.
E nonostante il suo sguardo tradisca una velenosa stizza mal sopita, c’è ancora silenzio, ma uno di quelli caldi, un filamento languido e sottile da far sopravvivere, nonostante tutto. Io voglio che sopravviva.
“Daisy” e finalmente mi guarda.
“Trecce bianche” rispondo, quasi sfidandolo.
“Non è il mio nome” sbuffa leggermente, tradendo un incontrollabile sorriso.
“Se è per questo neanche io mi chiamo Daisy.”
“E’ più di una volta che ti vedo e compio la scelta sbagliata. La mia Daisy dalla pelle candida e dal sorriso incerto. Annebbi i miei sensi.”
Mi manca l’aria, o forse mi sembra che ce ne sia troppa per i miei piccoli polmoni. Sono sempre stata brava a controllare le mie emozioni mentre dentro tutto si aggroviglia, si mescola, si appanna, e sfugge, confonde i pensieri. Sembra non sia passato un solo giorno da quella volta in caffetteria. Sembra che il tempo non lo scalfisca assolutamente.
“E quale sarebbe la scelta giusta?” azzardo.
Ora mi osserva più deciso e non sorride più.
“Per quanto ti riguarda, se lo sapessi, la farei. Per il resto ho finalmente le idee più chiare, perché ogni cosa matura con i suoi tempi.”
Ancora silenzio, come se fossimo soli anche se una folla urticante grida a pochi passi da noi.
Senza guardarmi riprende a parlare, ma è come se non fosse davvero rivolto a me. Tento di catturare ogni linea del suo volto, ogni piega di ogni suo soffice capello, ogni traiettoria delle sue labbra sarcastiche.
“Sai quanto è stato lacerante scriverti pensando che non avresti mai letto nulla?
Mai. Sai com’è mai?
Brucia, arriva lancinante e avvolge e fa mancare l’aria. Ti toglie il respiro. Mi ha fatto pensare ogni sabato che forse avresti mangiato pizza nella tua impeccabile casa in qualche impeccabile posto nel mondo. Ma forse tu non mangi neanche pizza.
Mi ha fatto pensare ogni domenica che forse avevi qualche paturnia, come in colazione da Tiffany.
Ed ogni volta che mi sono sdraiato ho sentito le tue mani che scorrevano i miei fianchi e si accartocciavano sul mio corpo, e lo avvicinavano pericolosamente.
Pensavo continuamente alle tue mani. Ai dettagli, al desiderio.
E-tu-non-mi-hai-mai-letto.
Penso ai vocali che poi non ti ho mandato, alla voglia pazza che avevo di te, con cui mi svegliavo, e che confesso, non sono ancora riuscito ad addomesticare.”
Mentre acquista sicurezza e scandisce ogni parola senza cercare però il contatto visivo, vorrei solo avvicinarmi di più e chiedere… ed ora?
Ed ora com’è per te?
Ma è già troppo tempo che siamo fuori e temo che Fabio se ne accorga, nonostante l’ottundimento alcolico. Non posso però trattenere un fremito, e so che lui lo sente. Come è sempre successo. Mi sente. Mi fissa le labbra. Solo che non posso, non ora, non qui.
E dopo qualche secondo un boato esplode fragoroso riportandomi alla realtà, ai suoni, alle voci, al dolore, e lascio il bicchiere che si infrange a terra, ricoprendomi di liquido cremisi sulle braccia e sul collo. È tutto rallentato eppure veloce mentre Trecce Bianche mi osserva imperterrito ed io non capisco da dove viene tutto questo frastuono, questa disperazione.
Allora mi volto.
No.
Non è possibile.
Non posso crederci.
Fabio ed Alex sono a terra, vedo solo sangue e grida e una calca che gli si avvicina mantenendo una certa distanza di sicurezza dettata dal panico. Lo guardo e mi sembra di veder comparire un ghigno sul suo bellissimo e giovane volto.
Dicono che quando si è vittima di uno shock il corpo e la mente si immobilizzino per alcuni secondi. C’è addirittura chi emette una risata per rifiutare la realtà.
Io invece non sento niente.
Mi stropiccio gli occhi e allora vedo che non è Fabio ad essere a terra, ma Alex.
E mi rendo anche conto che qualcuno ha sparato in casa mia.
Collego velocemente tutti i tasselli, guardo Trecce Bianche, mi accorgo che sta tentando di mettere a fuoco.
Raccolgo un istante di lucidità e dico tra i denti: “Fabio aveva scambiato la giacca con il suo amico. Quella blu elettrico la indossava Alex”.
Lui dischiude le labbra senza emettere suoni, senza vedere nulla, neanche il mio corpo bianco macchiato di porpora.
Poi ci fissiamo, nei nostri tempismi imperfetti, negli occhi languidi e terrorizzati, vittime entrambi delle nostre bugie e dei nostri invalicabili tormenti, consapevoli che le scelte che facciamo in pochi istanti restano lì a ricordarcelo ogni giorno che passa, o che non passa. Perché questo fanno le scelte: ci ricordano di loro.
Giro di scatto la testa ed in un istante dico con urgenza l’unica cosa che mi viene in mente. “Ti prego, scappa”.
E non mi importa che possa essere in un qualche modo responsabile dello sparo ad un passo da me; e neanche che possa essere un assassino. Io voglio solo che lui si salvi. Io ho disperatamente bisogno che lui sia al sicuro.
Sospirando mi guarda, come se volesse catturare dei frammenti di me, come se si volesse aggrappare ad un pensiero salvifico qualunque, come se andare fosse l’ultima cosa auspicabile, eppure in un solo brevissimo istante Trecce Bianche non c’è più.
Di nuovo, lui non c’è più.
