Bentrovati amici lettori,
per il nostro appuntamento di #ioraccontoaSH vi propongo la seconda parte del racconto già pubblicato un paio di mesi fa “La mia candida cucina” una storia perfetta da leggere sotto l’ombrellone o tranquillamente seduti sul divano di casa perché l’estate è il periodo perfetto per i racconti noir e i thriller.
L’autrice si chiama Barbara Aversa “missparklingbooks”, è una giovane insegnante di un Liceo Scientifico romano. Ama scrivere da quando era bambina e all’età di sedici anni ha pubblicato il suo primo racconto in un’antologia dedicata agli emergenti. Da sempre scrive e collabora presso un noto quotidiano del litorale romano; ha realizzato interviste per riviste dedicate ai più giovani, e scritto recensioni di libri. Qualche anno fa ha vinto il premio letterario Subway arrivando prima su Roma con il racconto introspettivo Diario di una ragazza. È molto attiva con la sua pagina Ig @missparklingbooks che raccoglie migliaia di follower, e collabora con thrillernord.it in modo particolare con autori esordienti.
Per creare l’atmosfera giusta per la lettura, consiglio In The Air Tonight di Phil Collins.
Vi do appuntamento a venerdì prossimo con un’altra storia, un altro genere.
Buona lettura
Aurora Redville
Il mio impeccabile salotto
di Barbara Aversa ‘Missparklingbooks’
Il tempo scorre veloce nei legami. Annaspa, incespica in alcune giornate ruvide, defluisce lento su quelle vellutate. Sono passati cinque anni dal nostro matrimonio, e sto per compiere trent’anni. Non mi scalfisce il pensiero del tempo che scorre, piuttosto la mia mente è sempre attiva e vigile su ogni cambiamento possibile. Il mio impeccabile salotto è divenuto il fulcro della nostra socialità. Sono riuscita a renderlo cedevole ed accogliente, come quelle gonfie e candide trapunte degli Hotel a cinque stelle svedesi, dove sai che non potrai che sperare in un sonno ristoratore, senza sorprese. Le luci sono importanti, devono essere morbide, calde. I ripiani dove poter conversare devono essere a portata di ogni angolo, dotati di diversi sottobicchieri ovviamente, perché nulla deve essere a repentaglio. Aperitivi rinforzati, convenevoli con colleghi di lavoro accompagnati da artefatte mogli semi-rigide dagli zigomi pronunciati e gli occhi vitrei, vino a volontà. Per gli ospiti ovviamente, perché come padrona di casa devo essere efficiente e lucida.
Mi sveglio nel tepore della primavera, mentre Fabio si veste in silenzio, per non disturbare. Lo osservo socchiudendo gli occhi, che ancora devono abituarsi alla luce del giorno. Sistema la cravatta, si tocca i capelli, si osserva nello specchio, di nuovo torna alla cravatta già perfettamente annodata. Si specchia ancora. e l’immagine che lo raggiunge lo compiace perché con un ghigno si tocca di nuovo i capelli.
I suoi occhi si posano su di me, un fagotto raggomitolato e silenzioso. Allora si avvicina, mi accarezza velocemente, e mi ricorda della cena di questa sera. Ci tiene molto perché c’è stata una recente fusione, dovremo dare il meglio. Perché siamo una squadra, dove ognuno è convinto di essere il coach. Annuisco, mi rimpolpo nel piumone e lui esce, scordando la giacca. Non è da lui. Così mi alzo di corsa quando sento sbattere la porta d’ingresso ma afferrandola noto una cosa che non avrebbe dovuto essere là. Un affusolato capello rosso mogano. Ed allora le porte dell’inferno si spalancano sotto le mie gambe. Mi sento come in quei film dove il protagonista sta per sprofondare ma è ancora in bilico tra la terra ed il nero dell’oblio, quello che inghiotte, e sa che non ci sarà scampo perché il crollo sarà memorabile, impietoso, scrosciante. Eppure è ancora lì, non è caduto, perché quei momenti infiniti prima della fine ricordano come un flashback senza limiti il terrore impietoso che lo sta per avvolgere.
Come un segugio odoro la giacca, dove si poggia ignaro l’interno del collo, con quel sapore quasi animalesco e pungente, controllo le tasche, afferro il capello nascondendolo sotto il cuscino e sento girare la chiave. Un velocissimo rewind mi fa tornare nella posizione iniziale mentre osservo il soffitto, assorta nei miei pensieri.
<Ho scordato la giacca, con questo caldo l’avrò inconsciamente dimenticata> – si giustifica velocemente – <corro amore, a stasera, e ricorda il mio antipasto preferito>. Sorrido, cado dalle nuvole con lo sguardo. Giacca? Non sapevo avessi una giacca sulla sedia sembro dire. Rassicurante, pulita, con gli occhi velati, il corpo assonnato e caldo, ed il fuoco. Quel fuoco, che conosco bene come sa ribollire nelle vene. Scorre, brucia, riesce a liquefarmi eppure a farmi sorridere sorniona, come una gatta in fase di risveglio con le ciglia lunghissime e occhi scheggiati di mandorla.
Prima di iniziare a ragionare sul da farsi, mi siedo con la mia vestaglia viscida davanti alla finestra. La luce è ancora fioca ma mi permette di osservare. Ho sempre amato guardare le finestre altrui, quello che celavano. Da piccola avevo trovato un modo. Avevo sistemato una sedia in balcone, ma era parzialmente coperta da un armadio in disuso. Così osservavo il palazzo di fronte. C’era la signora che impastava di prima mattina con il grembiule fiorato legato in vita; c’era il ragazzo che fumava osservando il vuoto mentre si stropicciava i capelli. E poi c’erano le feste. Quelle le ho sempre amate particolarmente, restavo imbambolata fino alla torta. Osservavo vorace, avrei voluto partecipare, invece vivevo con una vecchissima prozia che mi permetteva a malapena di andare a scuola. Amava solo le sue tartarughe, io ero un grosso impiccio del quale si voleva liberare, e presto. Un pomeriggio che era andata a fare la spesa presi le sue amate perle, le scastrai una per una dal lucido filo che le teneva insieme ed iniziai a buttarle di sotto, lentamente, guardando ciascuna di essa che piombava dal quarto piano. Poi presi le sue tartarughe e le portai al parco. Quelle zampette veloci e vispe mi impressionavano, gli occhi cerchiati di rosso tentavano di spaventarmi, invece le misi nella scatola delle perle e le portai a Villa Ada. C’era un grande laghetto pieno di tartarughe e le lasciai libere. Da quel momento è nata la mia passione per i parchi. Fingo di leggere per cercare di capire cosa fanno le persone che ho intorno. Alcune parlano al telefono con voce sommessa, altre corrono e poi si siedono, altri sono amanti che si uniscono appoggiati ad un albero ignari di essere osservati. Perché riesco a restare perfettamente in incognito. Eppure mi sono incredibilmente utili perché cerco di capire come fanno le persone a vivere una vita senza nessun pensiero roboante che risuoni nella testa senza pause. Ma oggi non potrò andare al parco, dovrò dare il meglio di me per creare la cena perfetta.
Oggi più che mai lo dovrà essere. Già da ieri ho preparato tutto il necessario per la cena, devo solo terminare gli antipasti preferiti di Fabio – ci tiene molto – e cuocere alla perfezione il Roast-beef, ma potrei farlo ad occhi chiusi. Mentre preparo il banchetto, mi assicuro che arrivino i dolci per tempo dalla più buona pasticceria della zona. Ovviamente alle 14 ho il parrucchiere e poi si apriranno le danze per prepararmi. Una cosa che adoro, perché amo stupire mio marito, voglio che mi desideri proprio quando non può avermi. Ed amo strusciare accanto al tavolino da caffè con i miei abiti morbidi e voluttuosi, amo riempirgli il calice di vino bianco leccandomi le labbra mentre glielo verso e distrattamente guardarlo negli occhi, per un solo istante. Questo basta. Uno solo, per capire.
Ed ora abbiamo un problema oltre misura, perché quel filo mogano si è impigliato nel mio salotto impeccabile, ed è gommoso, pur tirandolo via con tutte le mie forze, è impigliato.
E non si scosta.
E non mi libera.
Sono sua prigioniera, proprio io che nella mia vita ho sempre tentato di non dipendere da nulla. Eppure quel pensiero mi opprime la gola, è come una spina impegolata nella trachea, come un pensiero che morde rabbioso la realtà, e devo liberarmene. Io me ne devo liberare. Come quelle perle scastrate una ad una dalla base, devo sfilare ogni criticità e difendermi. E difenderci.
Quando arrivano i primi ospiti sono assolutamente radiosa. L’abito cremisi fa risaltare il castano brillante dei miei capelli, la frangia netta ed irregolare dona al mio viso un ovale perfetto, e mi sento la padrona di casa per eccellenza, che darà inizio alle danze. Forse macabre, ma questo lo sto ancora valutando. Quando riesco a dare veramente il meglio di me, amo improvvisare. Le coppie iniziano ad arrivare, ma benvenuti nel mio salotto, sembro una presentatrice, Fabio mi osserva, raccoglie le giacche e le borse delle signore. In breve tempo tutti i nostri sei ospiti si sono accomodati nel nostro spazio caldo e soffuso, io verso del vino a mio marito che poi lo offre agli altri. Ci sfioriamo per un istante, l’elettricità, voglio l’elettricità, la scossa, lo scoppio, ed in quell’istante alzo il viso. Mentre penso a quando nel mio irreprensibile salotto tutti saranno usciti, ed io lentamente mi avvicinerò a Fabio che afferrerà i lembi dell’abito per farsi strada tra le cosce umide e roventi e sentirò divampare tutta l’energia finché quel minuscolo capello diventerà invisibile.
Fabio è molto orgoglioso della sua impeccabile moglie, del nostro salotto ineccepibile, dove ogni cosa è al proprio posto, specialmente noi. Ha sempre amato l’etichetta, è stato forgiato così da sua madre. Inizio a servire gli antipasti elaborati e scenografici, questa parte della cena è in piedi, per favorire la conversazione. Provo a non soffermarmi sulle mogli dei colleghi di Fabio, ma è impossibile non notare quella macchia di colore nel candore di ciò che ho costruito. Quello scarabocchio mogano che si muove dondolando impercettibilmente su spalle minuscole e seni invisibili. Lo so: è lei.
Sento gracchiare la sua voce ed in rassegna compaiono tutte le immagini che ho avuto durante la giornata.
Eliminare questo problema dalla mia vita, depennare quel capello, tornare all’avvolgente torpore del mio letto. Vorrei ripartire da lì. Ovviamente nessuno può notare nulla, Fabio mi cinge la vita mentre tento di divincolarmi per poggiare il vassoio ed all’orecchio mi sussurra che sembro nervosa. Impossibile, rispondo, va tutto bene. Ma in quella frazione di secondo le scaglie verdi e potenti dei suoi occhi macchiati mi attraversano penetrandomi l’anima. Non è possibile che mi legga la mente. Oppure si? Mi sento confusa eppure non è la prima volta che mi sembra che questa assurdità sia fattibile. È diventato più attraente in questi anni, la chimica non si è esaurita. Il nostro incastro ossessivo funziona, e bene. Non sarei mai disposta a rinunciare a lui. Mai.
Riesco a svicolare dal suo sguardo brillante e torniamo ad intrattenere i nostri eleganti ospiti. Le signore dai colli impreziositi, i compagni dai polsi in evidenza. La Macchia Mogano sembra non essersi spostata di un millimetro, guarda in basso, avvolta nel suo tubino verde smeraldo che risalta il colore dei capelli ed il bianco dei denti. Non ha toccato nulla delle mie prelibatezze. Gioca con le perle e Fabio le si avvicina, le chiede di mangiare qualcosa. Lei timidamente, come una quattordicenne, scuote la testa allora il marito le lancia uno sguardo fulmineo e lei allarga le braccia. È come se osservassi tutto da un filtro, come se fossi in una casa degli specchi, quelli che deformano, allargano, e tramite quei dettagli specchiati rivelano realtà sommerse ed affannate. Fabio le porge il portavivande più bello, che non ho ancora presentato. Le sue praline preferite, che aspettavo a mostrare. Sono il mio orgoglio perché sono un trionfo di frutta secca e cannella, un sapore particolare, il preferito di mio marito, che già stamattina si è assicurato di poter gustare. Lei è titubante ma non riesce a sottrarsi allo sguardo felino di Fabio, che sembra incuterle terrore ed incanto nel contempo. Lei apre le mani e lui con un tovagliolo le porge tre praline dorate e croccanti. Si fissano, mi domando se sono io, se tutto galoppa irrefrenabile nella mia mente oppure c’è qualcosa di stonato in quello sguardo di ripugnanza ed attrazione.
È tutto ovattato, mentre mi muovo svelta da una stanza all’altra per offrire il meglio e mi arrivano le voci da lontano, come se non fosse qui. La nuova palestra, la meritata promozione, il nuovo ristorante di carne argentina ai Parioli. Tutto si mescola e fluisce mentre provo a pensare come uscire da questa situazione. Se sono stata delusa sicuramente dovrò agire. Presto. Molto presto. Vado in bagno, velocemente mi ritocco il rossetto rosso che si è leggermente sbavato, sistemo i capelli, mi osservo gli occhi da cerbiatta per trovare la percentuale di paura che celano. Solo io posso saperlo. O forse no.
D’improvviso un grido lacerante irrompe dall’altra stanza, mi afferro al lavandino per non cadere e mi precipito in salotto. Sono travolta da un’immagine scioccante, la Macchia Mogano che occupava un angolo del mio divano è appoggiata al muro ed il rosso ha invaso tutto il suo corpo. Non respira, sembra che stia per vomitare ma in realtà annaspa tentando di respirare, ma non riesce. Il marito grida qualcosa su una borsa, tutte le signore hanno il volto coperto dalle mani mentre gli uomini tentano di proteggere il loro sguardo facendo loro scudo con il proprio corpo. Fabio la osserva aggrottando lo sguardo mentre il marito continua a chiedere dove si trova la borsa. Già, la borsa. Fabio scatta verso il guardaroba accanto alla camera da letto mentre la Macchia Mogano sembra rattrappirsi divenendo gracile ed intirizzita, non riesce più a parlare ed io la guardo. E la guardo. Cosa dovrei fare se non guardarla?
Torna Fabio, lucido tutto sommato, le borse non sono nel guardaroba, dove sono le borse? Un silenzio plumbeo piomba greve su tutti noi, mentre la Macchia Mogano si accascia lenta e morbosa, come quelle chiazze d’inchiostro che scivolano sulla tela divenendo solo puntini evanescenti. Nessuno osa guardare. La Macchia Mogano sembra indicare Fabio con quell’ultimo sguardo di chi sa che non ne avrà altri.
Siamo tutti nella stessa stanza che improvvisamente sembra minuscola e soffocante, nessuno emette un solo suono. Siamo in attesa di qualcosa, senza sapere nulla. Se un drone fosse sopra le nostre teste vedrebbe tre donne nascoste tra mani e giacche ed una coppia solitaria, una Macchia Mogano atterrita ed un compagno immobile e silenzioso. L’appassionata di carne argentina, dopo un tempo che sembra infinito, sussurra che dovremmo chiamare qualcuno. Certo, interviene subito Fabio, prende nuovamente le redini di tutto, e si dirige nella mia candida cucina per telefonare indisturbato. Lo seguo, con la testa laterale, come fanno quei cagnolini che tentano di ascoltare meglio per capire una lingua a loro sconosciuta e, lenta sui tacchi altissimi improvvisamente instabili, lo raggiungo. Sembro una sposa che attraversa la navata, tutti mi guardano mentre io provo a non oscillare. Lo trovo con il telefono e mi guarda. Non ha ancora composto alcun numero.
<È morta vero>? mi sussurra.
<Credo, sì>.
<Volevo solo che sapessi che nulla metterà mai a repentaglio la nostra famiglia. Siamo indissolubili. Vorrei essere certo che lo sapessi>. Ha la voce roca e bassa, gli occhi fissi sulle mie labbra dischiuse, e mi avvolge d’improvviso la testa, poggiando un bacio veloce sui miei capelli.
<Inoltre – prosegue – nel guardaroba si è formato un foro, spesso le borse si incastrano sotto la cassapanca. Volevo solo essere certo che te lo ricordassi>.
Annuisco mentre acquisto sicurezza, mi allontano per lasciarlo chiamare e per non ascoltare.
In fondo un uomo che uccide la sua amante avrà pur bisogno della propria privacy.
Torno in salotto, ho riacquistato tutta la mia sicurezza. Perché se è indubbio che io non sarei mai disposta a rinunciare a lui, è fuori discussione che anche lui non sarebbe mai disposto a rinunciare a me.