A metà tra il resoconto di viaggio e la fiaba, un documentario dai tratti delicati accompagna il pubblico dalle coste dell’Oceano Indiano fino alle pendici dell’Himalaya.
Questo il primo lungometraggio di Stefano Deffenu, attore e regista sassarese – noto per la sua indimenticabile interpretazione di Angelino nel film “Perfidia” (2014) di Bonifacio Angius – che senza seduzione ci incuriosisce e trascina alla ricerca dei leggendari Ananda, tribù di bambini che senza la presenza degli adulti sembra abbia trovato la chiave per vivere in armonia. “Il nome Ananda vuol dire felicità, beatitudine” spiega Stefano, ed attraverso questa missione ci regala un viaggio interiore alla scoperta di sé e del Sé.
Il richiamo al romanzo di formazione è quindi d’obbligo, ma su questa falsariga dieci capitoli si inanellano senza avere alcuna pretesa di insegnamento: la volontà è piuttosto quella di mostrare, mostrare dettagli, volti, particolari, così da darci occasione di porci domande, di non fermarci in superficie, di comprendere profondamente ciò che ci pare sconosciuto, ignoto. Questo aspetto quasi mistico, se vogliamo, fa da contraltare alla critica al consumismo e alla società occidentale foriera di tracotante saccenza che di questo consumismo ne ha fatto il proprio centro.
Non si tratta dunque di un documentario geografico o etnografico, è piuttosto la trasposizione di un vuoto generazionale che desidera (necessita) essere colmato, di una perdita di cui va preso atto e metabolizzata l’evoluzione. Sembra allora un tiro mancino del destino, quello che lascerà un vuoto anche nella vita privata del regista, e che farà tardare la lavorazione del film di parecchi anni. “Ananda è la mia personale ricerca di una pace interiore che forse non troverò mai”, prosegue Stefano.
Il girato originale del 2011 assume dunque nuovi significati, la versione finale del 2020 ci consegna il disincanto della voce narrante del regista che marca nettamente la distanza dalle immagini oniriche che ci scorrono davanti. Scelta vincente, che ci permette di conoscere Deffenu pur senza mai vederlo. Il volto è invece quello di un cicerone giocoso seppur silenziosamente profondo, a cui si deve l’ispirazione del film: “Un giorno, un mio amico, Pierre Obino, di ritorno da un viaggio in India mi parlò di una tribù leggendaria di bambini che vivono soli nella giungla, senza genitori. Sono bastate queste poche parole a farmi scattare la scintilla e seguirlo nella sua incantata ricerca della tribù fantasma”. Ricerca che li porterà come detto fino alle soglie dell’Himalaya, nel villaggio di Malana, annoverato tra le più antiche democrazie del mondo e i cui abitanti si dice discendano direttamente da Alessandro Magno.
Il tratto registico con cui Deffenu ci porta con sé è multiforme, variegato, la scelta obbligata della camera a mano si rivela un’ottima carta da giocare in fase di montaggio grazie all’esaltazione di alcune scene tramite la messa a fuoco, dandoci illusione che l’obiettivo sia il nostro stesso sguardo. La realtà dell’India divisa tra metropoli in continuo sviluppo, villaggi dispersi e gioventù in fermento viene ben riassunta in sessanta minuti e ci viene mostrata attraverso il linguaggio di un cineasta sapiente che non ha paura di utilizzare la grammatica dei grandi autori per veicolare sensazioni e stati d’animo (come non vedere i richiami noir alla Los Angeles distopica di Blade Runner nella scena di vuoto e smarrimento a Gokarna, o evitare di sorridere davanti a un Pierre/Benigni mentre gioca coi bambini a scuola).
Un’altra carta vincente è sicuramente la musica: “Il lavoro svolto da Francesco Simula e Luigi Frassetto è encomiabile; ci hanno lavorato per un anno, e pur senza collaborazione diretta le musiche creano il giusto contrasto melodico per le immagini, traghettano il film in perfetta armonia con la voce fuoricampo. È stato bello che abbiano suonato tanti professionisti talentuosi (Caterina Solinas, Emanuele Dau, Daniela Pes, Marco Valentino, Frassetto Quartet), inoltre avere gli archi nella colonna sonora per un regista è la realizzazione di un sogno. Di questo ringrazio di cuore Luigi e spero in seguito di poterne usufruirne ancora di più nei prossimi progetti.”
La collaborazione con professionisti di valore è uno dei boost meglio riusciti: “Fondamentale è stato l’aiuto di Bonifacio, col quale abbiamo deciso le linee guida della storia e il modo in cui la voce fuori campo doveva accompagnare lo spettatore. Si doveva trovare compattezza e armonia tra musica, immagini e voce, cosa non facile, ma pensiamo che alla fine il racconto sia molto coinvolgente grazie al giusto bilanciamento tra questi fattori.”
Stefano è voce narrante, occhio, pensiero. Pierre è azione, reazione, risoluzione. Il pubblico può allora scegliere di identificarsi in questo o quell’elemento, di credere o non credere a ciò che vede.
Pubblicato on line nella cornice del festival di cinema del reale IsReal a dicembre 2020,il film ha raccolto delle ottime critiche: “un viaggio affascinante illuminato dall’amore, dalla vitalità, dai sorrisi dei bambini” oppure “un regalo che con la pandemia che stiamo vivendo, aiuta. E non è poco.” dicono alcuni spettatori.
Stefano strizza l’occhio: “Ora il lettore si starà probabilmente chiedendo se alla fine poi ho trovato gli Ananda. Per avere la risposta dovrete vedere il film. Dove? Sempre con la collaborazione di Angius e della Monello Film ci stiamo occupando della promozione all’estero e speriamo molto presto in una première europea. Ovviamente teniamo tanto anche alla fruizione in sala, sarà emozionante poter mostrare il film a Sassari, la mia città.” E noi saremo qui per vederlo. A presto!