Negli ultimi tempi sentiamo parlare sempre più spesso del fenomeno del revenge porn. Il termine inglese indica la cosiddetta “vendetta pornografica”, cioè la diffusione senza consenso di immagini o video intimi con l’intento di denigrare la persona ritratta. Tuttavia, l’espressione si può considerare impropria e fuorviante. Infatti, nonostante la definizione faccia riferimento ad un atto di vendetta, la diffusione di contenuti sessualmente espliciti può avvenire per motivi differenti. Inoltre, il termine “vendetta” tende a spostare l’attenzione su un comportamento sbagliato da parte della vittima e quindi a colpevolizzarla. In un qualsiasi tipo di violenza però, è bene ricordare, che una vittima è e rimane tale e non ha mai alcuna responsabilità per ciò che subisce.
Il revenge porn può essere definito a tutti gli effetti una forma di violenza che è diventata un reato solo pochi anni fa. I contenuti diffusi online possono esser stati prodotti all’interno di una relazione intima consensuale, possono essere stati realizzati senza alcun consenso da parte dei protagonisti (ad esempio tramite telecamere nascoste) o possono esser stati sottratti attraverso l’hacking degli spazi cloud della vittima. In ognuno di questi casi, chi lo subisce non ha dato l’autorizzazione alla diffusione dei materiali e non è neppure a conoscenza dell’intenzione di divulgarli. Questo genere di sopruso è prodotto, per la maggior parte dei casi, tramite le nuove tecnologie. Il veicolo preferito da chi commette il reato sono i social network e le piattaforme di messaggistica istantanea perché permettono una diffusione veloce e incontrollata dei contenuti molto difficile da fermare. Un’inchiesta di Wired dell’aprile dell’anno scorso ha denunciato una chat Telegram in cui oltre 40mila persone ogni giorno si scambiavano foto e video di donne. La testata lo ha definito un vero e proprio “rito collettivo dello stupro di gruppo”.
Il crimine è diventato allarmante dopo un interminabile susseguirsi di conseguenze tragiche che hanno coinvolto le vittime e che hanno scosso l’opinione pubblica. Uno tra i primi casi che fece scalpore fu quello di Tiziana Cantone, la ragazza napoletana che venne ritrovata morta nel 2016, in circostanze ancora da accertare, dopo che i suoi filmati girati con l’ex fidanzato furono fatti girare in rete. Risale a due anni dopo invece la vicenda della maestra d’asilo di Torino che, dopo la diffusione da parte dell’ex fidanzato di foto e video di un loro momento di intimità nella chat del calcetto, oltre a vedersi lesa nella sfera privata, è stata pure colpevolizzata e poi licenziata dal posto di lavoro. Dal revenge porn non sono immuni neanche i personaggi dello spettacolo. La conduttrice Diletta Leotta, ad esempio, ha raccontato più volte il calvario che ha dovuto affrontare quando un hacker si intromise nel suo cellulare sottraendole immagini e video personali e poi diffondendoli in rete.
Entrambi i sessi sono colpiti dalla vendetta pornografica ma, secondo una stima del Ministero dell’Interno, più dell’80% delle vittime sono donne spesso perseguitate da ex fidanzati o ex mariti. Coloro che compiono il reato lo fanno sapendo bene che il gesto avrà come conseguenza la gogna mediatica e la distruzione non solo della reputazione, ma spesso anche della vita. Le vittime vengono infatti dilaniate dal senso di vergogna causato da un’intimità violata. Per quanto riguarda le donne, le conseguenze sono spesso peggiori perché l’imbarazzo è accresciuto dal pregiudizio comune che non possano vivere liberamente la propria sessualità. Ciò provoca in loro umiliazione, violenza psicologica e slut-shaming, cioè vengono portate a sentirsi colpevoli per comportamenti sessuali che si discostano dalle aspettative di genere tradizionali.
Come anticipato, il revenge porn oggi è reato. La Legge 69 del 19 luglio 2019 l’ha inserito finalmente nella disciplina penale. Il testo recita: “il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro; la pena si applica anche a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, li diffonde a sua volta al fine di recare nocumento agli interessati. La fattispecie è aggravata se i fatti sono commessi nell’ambito di una relazione affettiva, anche cessata, o con l’impiego di strumenti informatici”. I casi di revenge porn però, anche dopo l’entrata in vigore della norma, continuano ad essere tanti. Secondo la Direzione della Polizia Criminale si contano circa 2 episodi ogni 24 ore. È necessario precisare i che i dati non possono essere considerati mai del tutto reali perché spesso chi subisce umiliazioni di questo genere ha paura di denunciare, teme un’ulteriore violenza e preferisce proteggersi dall’imbarazzo tacendo. Il fenomeno è quindi ancora molto pervasivo e richiede maggiore attenzione e ulteriori e mirati interventi anche da parte di social e app di messaggistica per tutelare chi li utilizza.