La 95esima edizione del Premio Oscar ha da poco incoronato i suoi vincitori e, tra questi, spicca senza ombra di dubbio un trionfatore: si tratta di “Everything Everywhere All At Once”, il film diretto dal duo di registi Daniel Kwan e Daniel Scheinert -meglio noti come “The Daniels”-, che si è aggiudicato ben 7 statuette su 11 nomination, tra cui Miglior film, Miglior Regia, Miglior attrice protagonista (Michelle Yeoh, prima interprete asiatica ad aggiudicarsi il premio in questa categoria), Miglior attrice non protagonista (Jamie LeeCurtis), Miglior attore non protagonista (Ke Huy Quan) e Miglior sceneggiatura originale (ancora ai The Daniels).
La portata di questo successo è notevole, perché la pellicola infrange un record, oltre al riconoscimento per Michelle Yeoh, che le consente di entrare di diritto nella storia degli Academy Awards; finora infatti solo tre titoli, “Accadde una notte” di Frank Capra (1934), “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Miloš Forman (1975) e “Il silenzio degli innocenti” di Jonathan Demme (1991) si erano aggiudicati i big five, i premi nelle 5 categorie più importanti. Quest’anno i pronostici erano decisamente favorevoli a “Everything Everywhere All At Once”, ma di certo non ci si aspettava una tale incetta di riconoscimenti, che di fatto ha lasciato a bocca asciutta numerosi e ben più blasonati competitor.
Il percorso del film verso il trionfo è stato lungo ed è iniziato negli Stati Uniti circa un anno fa, lo scorso marzo; la pellicola, che in questi giorni torna nelle sale per celebrare il successo agli Oscar, ha riscosso i favori di pubblico e critica, dettaglio questo ancor più significativo dal momento che si tratta di un film “di genere”, pura science fiction che raramente riscuote un successo unanime.
“Everything Everywhere All At Once” trascina infatti il pubblico nei mondi alternativi del multiverso, tradizionalmente più familiari agli appassionati di cinecomic che non ai critici cinematografici, ma questo espediente narrativo consente ai Daniels di tratteggiare con originalità la storia, molto “reale”, di una famiglia di immigrati cinesi negli Stati Uniti di oggi. Evelyn Quan Wang (Michelle Yeoh) gestisce una tipica lavanderia a gettoni insieme a suo marito Waymond (Ke Huy Quan) e si trova al centro di una crisi familiare e lavorativa a cui sembra incapace di reagire, conducendo un’esistenza apatica e rassegnata.
Waymond medita di divorziare, mentre Joy (Stephanie Hsu), figlia incompresa e considerata ribelle, combatte per far accettare la propria omosessualità alla famiglia; la lavanderia a gettoni, inoltre, è tenuta sotto stretta osservazione dall’IRS (Internal Revenue Service), agenzia governativa deputata alla riscossione dei tributi e dall’ispettrice Deirdre Beaubeirdre (Jamie Lee Curtis): l’attività rischia il fallimento, con disappunto del padre di Evelyn, Gong Gong (James Hong), pronto a riversare su sua figlia le responsabilità per la disastrosa situazione familiare e finanziaria.
Proprio mentre si trova negli uffici dell’Irs, però, Evelyn viene a conoscenza dell’esistenza del multiverso: incontra infatti Alpha Waymond, versione alternativa di suo marito, che le svela di appartenere all’Alphaverse, uno degli universi paralleli che coesistono nei vari piani della realtà, creati dalle differenti scelte compiute dalle persone nell’arco della loro esistenza. In questo universo, Alpha Evelyn, ora defunta, ha creato una tecnologia capace di far accedere alle competenze e abilità delle varie versioni alternative di se stessi: Jobu Tupaki, Joy nell’Alphaverse, costretta a saltare da un universo all’altro da sua madre, ha acquisito un enorme potere e ha creato un “grande bagel”, una sorta di buco nero capace di distruggere l’intero multiverso.




Riassumere le peripezie di Evelyn, impegnata a inseguire tra le varie realtà alternative Jobu per impedirle di far collassare i diversi piani dell’esistenza, è praticamente impossibile, ma in definitiva il multiverso consente alla protagonista di confrontarsi con le proprie scelte e le proprie potenzialità, spesso inespresse, e di aprire una finestra di comprensione “alternativa” verso i componenti della sua famiglia, compresa l’ispettrice Beaubeirdre.
Tutta la vicenda è narrata con estrema ironia, con un senso del surreale che non inficia, ma anzi rende godibile, la riflessione su dinamiche socio-economiche e culturali molto attuali; il film racconta dall’interno la comunità cinese trapiantata negli Stati Uniti, tra integrazione e tendenze conservatrici, e pone l’accento sul rapporto madre-figlia, su cui si consuma uno scontro non solo generazionale, ma culturale, che mette in discussione, per esempio, l’idea di famiglia e sessualità “tradizionali”. La pellicola, dunque, è un grande affresco familiare, raccontato con uno stile narrativo affine al pubblico più giovane, ma capace di omaggiare alcuni generi tradizionalmente molto amati, come i Kung Fu Movies: tra i produttori del film, non a caso, ci sono i fratelli Anthony e Joe Russo, firme del Marvel Cinematic Universe, che hanno creduto nel progetto dei Daniels, duo di registi con alle spalle un solo film ad alto budget, “Swiss Army Man” del 2016.
Sono molti, dunque, i motivi per cui questo film verrà ricordato, ma, record a parte, una delle immagini degli Oscar 2023 che resterà impressa più a lungo nella memoria degli appassionati di cinema è l’abbraccio tra Harrison Ford, nella sua lunga carriera “solo” candidato all’Oscar, e Ke Huy Quan, interprete del giovane Short Round in “Indiana Jones e il Tempio Maledetto” e fresco vincitore della statuetta dopo anni di assenza dalle scene: anche queste, forse, sono le stranezze del multiverso.