Cagliari. Linea 5 del CTM. Una frase cattura la mia attenzione: «Mamma, ma lo sai che il sindaco mi ha strinto la mano?». A proferirla è un bambino di circa 10 anni. Un sorriso nasce inevitabilmente sul mio volto. Poi, la riflessione: sperimentazione, evoluzione, funerale della grammatica come la conosciamo (e in verità nemmeno troppo bene). Avevo davanti un linguista in erba che aveva capito più di tutta la Crusca messa insieme. Fulminea, la realizzazione: l’esistenza di una varietà esistente e passata finora inosservata – altro che ignoranza! – che possiede precetti e caratteristiche ben precise, una sua “sgrammatica”, un margine assolutamente ampio di produttività e uno assolutamente ristretto di tolleranza verso i puristi, perché nella comunicazione ciò che conta è l’efficacia del messaggio. Capire, prima ancora di correggere.
La prima caratteristica – ma anche il primo precetto – è l’assoluta facilità con cui termini appartenenti al sardo vengono convertiti o adattati all’italiano, dando vita a frasi uniche, a sfumature di senso altrimenti irriproducibili e a un’autenticità degna del patrimonio culturale della nostra isola. Se il bambino del 5 avesse detto “il sindaco mi ha stretto la mano”, avrebbe senz’altro prodotto una frase grammaticalmente corretta, come ci si aspetterebbe dalla sua età e dal suo grado di istruzione. Ma dov’è l’identità? Si sarà persa nel capitolo della sua grammatica scolastica dedicata al participio passato… “Mi sto accallellando” (da “sa callella”, ovvero “la sonnolenza” post-pasto): una voce fuori dal coro a Milano, Firenze o Roma. So perfettamente chi sei, ti sei distinto, sei sardo, sei unico. Ignorante? Forse, ma originale.
La seconda caratteristica – un po’ meno precetto – è la creatività che contraddistingue tutti quei termini nati grazie al contributo delle giovani cricche che popolano la capitale e non solo, delle generazioni poi non così sprecate. Basti pensare a quanti modi esistano – e tutti riconosciuti – per dire “molto” e “di continuo”: “molto” posposto, come richiesto dal costrutto sardo tipico (“è bello molto”); “solo”, suo sinonimo (“è solo bello”); “fisso”, che si dinamizza per dire “di continuo” (“sta fisso giocando”); “a fuoco”, che enfatizza la durata e intensità dell’azione (“mi metto a studiare a fuoco”).
Per non parlare poi di tutti quegli intercalari che sono diventati quasi dei marchi di fabbrica, delle espressioni di origine controllata: il sarcastico “di gesso!”, per sottolineare l’improbabilità di un determinato evento; l’entusiasta “fiamma!”, espressione di stupore e meraviglia; il sempreverde “di lusso!”, che esprime approvazione per una circostanza favorevole. Chi altri lo direbbe?
La terza caratteristica – ma anche un ostacolo – è l’intraducibilità di una terminologia creata ad hoc e da una cultura leggibile sottopelle e non sui libri. Non esistono scuole, né interpreti. Lo sappiamo, ci capiamo. Ed è tutto. E se l’esclusività e il prestigio potrebbero giocare a nostro favore, non possono fare altrettanto i cortocircuiti linguistici con i non-isolani. Come potremmo mai tradurre il termine “sciapiru” senza privarlo di tutte le sue sfumature e decontestualizzarlo? Non sarebbe un crimine dire che “sperduto” equivale a “sperdiu” e che “curioseddu” significa semplicemente “curioso”? Corretto, ma così “pulito”, neutro. Ciò che bisogna tradurre è un retaggio secolare, ma senza troppi giri di parole, senza dizionario, a meno che non sia tascabile, urbano.
Scorretta e inudibile, questa varietà sarà pure l’orrore e il disonore della lingua italiana, ma esiste perché parlata, vive, brulica, si evolve, è incontrollabile e senza che però ci siano mai malintesi. Non ci è stata imposta e a nostra volta non la imponiamo. Non sarà quindi che fosse scritto – o detto – che doveva nascere? Doveva, e dal nostro senso geneticamente inciso dell’arrangiarsi, dell’ignorare in nome del capire e dell’essere comunque capiti. L’era dello strafalcione non è databile e non ha scadenza. Senza errori una lingua non può esistere, senza il contributo di chi la parla non può evolversi, senza l’influenza della cultura non può avere un’identità.