Nato in una famiglia di professionisti della scena, l’attore romano Matteo Gazzolo risiede da tempo in Sardegna. Dopo aver trascorso dodici anni lavorando per il cinema e la televisione, ha abbandonato quella carriera per dedicarsi interamente al teatro così come l’ha sempre inteso: come ricerca interiore del personaggio e lavoro su testi da sondare in profondità e ai quali rendere nuova vita. Una consapevolezza che cerca di trasmettere agli allievi che seguono i suoi corsi alla scuola sassarese La voce in musica. Lo abbiamo intervistato per conoscere più nel dettaglio il suo percorso artistico.
Com’è avvenuta la tua formazione?
In parte, si è svolta in un modo che storicamente non è più possibile: le scuole di teatro, così come le conosciamo oggi, sono infatti un’invenzione moderna. In tempi meno recenti, chi desiderasse lavorare come attore doveva dare prova delle sue doti direttamente sul palcoscenico e, se veniva acclamato dal pubblico, poteva continuare. Io ho imparato così: mio padre faceva il capocomico e ricevetti il mio “battesimo” sulla scena a quattordici anni. Da lì proseguii migliorando attraverso l’esperienza diretta, a cui poi affiancai, per sette anni, i corsi di acting training tenuti a Roma da Beatrice Bracco, affinando così il lavoro su me stesso e sulla ricerca interiore dei personaggi. Un tipo di training essenziale per chi svolge questa attività: quando sei su un palco, il pubblico infatti percepisce, prima di ciò che fai, quello che hai dentro; se per esempio un musicista, nonostante l’impeccabile esecuzione, è imbarazzato, al pubblico giungerà questo.
Da mio padre ho ricevuto un dono preziosissimo: quello di imparare a far rivivere ogni parola di un’opera attraverso la voce. Conservo gelosamente i suoi copioni dove, come per una melodia da leggere su partitura, vengono evidenziate le lettere, le parole da calcare per rendere “vivo” il testo, il personaggio.
Perché hai deciso di rinunciare alla carriera televisiva?
Ero molto ricco e non ero per niente felice. Ho lavorato per dodici anni senza fermarmi mai, recitando in produzioni di cui non sapevo quasi nulla e muovendomi in un ambiente in cui suscitare emozioni facili era prioritario rispetto alla qualità. A un certo punto mi sono accorto di desiderare di più, di non essere soddisfatto, dopo tanto studio, di quel mondo.
E poi, un giorno, percorrendo la Via Aurelia in quel tratto che, in Toscana, passa vicino alla costa, mi sono reso conto che non andavo al mare da dodici anni.
E allora sono venuto in Sardegna.
Com’è cambiata la tua vita professionale in Sardegna e quali sono i limiti di questa terra?
In Sardegna ho avuto la possibilità di lavorare indipendentemente da vincoli contrattuali, di esprimere liberamente le mie idee e sviluppare, ad esempio, un mio personale disegno di spettacolo: una forma ibrida di recital in cui la parte musicale non si limita a fare da sottofondo o intermezzo ma ha lo stesso peso narrativo di quella testuale.
Il limite è il provincialismo, la forma mentis secondo cui “comunque vada sarà un successo”, per cui l’artista si accontenta del plauso di una ristretta cerchia locale, smettendo di crescere e di confrontarsi col mondo esterno. É un male comune a tutte le province di Italia, in parte derivante dalla politica nazionale che, dall’inizio degli anni ‘80, ha interrotto e sovvertito quel fenomeno di decentramento che portava i grandi nomi della cultura anche nei piccoli agglomerati e che ha condotto invece al rafforzamento dei teatri stabili nelle grandi città.
Cosa raccomanderesti a chi volesse accostarsi al tuo mestiere?
Deve essere disposto a capire che non si tratta di un obiettivo a buon mercato, raggiungibile dopo un anno di corso. Bisogna avere la pazienza di lavorare per tutto il tempo necessario non solo per apprendere le nozioni tecniche ma anche per interiorizzarle, trasformare l’esperienza in facoltà. Deve inoltre essere capace di rinunciare totalmente a quel perbenismo che ci impedisce di entrare subito in relazione con gli altri, anche fisicamente. Il teatro non ne ha bisogno, non conosce questi limiti.