ChatGPT è l’intelligenza artificiale più chiacchierata del momento, anche per via delle criticità emerse e del temporaneo blocco ora predisposto dal nostro garante della privacy.
Si tratta di un potente software basato sull’apprendimento automatico, in grado di simulare la conversazione umana in molteplici lingue e di rendere fruibile, su richiesta, il riuso di innumerevoli fonti di informazione attraverso testi di varia natura e utilità.
Perciò nulla di inedito: non essendo una reale intelligenza non può essere originale, non ha attitudine esistenziale, è solo sofisticata tecnologia. Le uniche domande che si possono rivolgere a ChatGPT sono tipizzazioni di esigenze standard.
La sua operatività, cioè la sua capacità di eseguire istruzioni, è innegabilmente straordinaria, legata a un potenziale combinatorio elevatissimo che permette di sfruttare al massimo una sterminata banca dati. Ciò che tuttavia propone è senza una vera impronta, senza apprezzabile profondità, omologato e omologante: incoraggia a conformarsi alle soluzioni altrui e a dipenderne.
ChatGPT seduce con la sua abilità nel reperire risposte immediate e mirate, ma così vanifica il senso e il valore di una ricerca paziente, lo stupore di una scoperta inattesa; la stessa finezza del ragionamento e della comprensione rischia di impoverirsi e di estinguersi progressivamente, insieme alla meraviglia di ideare e creare.
Anche il suo invidiabile archivio di memoria, pur costituendo una notevolissima risorsa, è in realtà limitante: confina ogni iniziativa entro il perimetro del già noto, mortificando l’esercizio libero della fantasia e l’ispirazione personale.
ChatGPT è l’ultima popolare frontiera della tecnologia informatica, ma l’entusiasmo per questo nuovo idolo in fondo non convince. Non tutti sono disposti a sacrificargli libertà e unicità. A un falso d’autore c’è chi preferisce la propria imperfetta, inimitabile e autentica umanità.
Maura Farci
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