San Valentino, festa degli innamorati, sinonimo di fiori, cioccolatini, cene romantiche a lume di candela ma anche di storie d’amore fatte di sguardi, di teneri abbracci e passeggiate mano nella mano. Non sempre però le storie d’amore hanno un lieto fine, l’esempio maggiore è sicuramente quello di Giulietta e Romeo, simbolo di immenso amore finito tragicamente. San Valentino stesso, martire a cui è dedicato il 14 febbraio, morì decapitato compiendo come ultimo atto l’invio di un biglietto alla sua amata, da cui il tradizionale “valentino”.
Anche la Sardegna può vantare un suo drammatico e struggente racconto d’amore, da ricordare nel giorno degli innamorati, la cui trama si intreccia tra il sacro e il profano. Legata alla presenza di due particolari menhir nell’istmo che collega l’isola di Sant’Antioco alla terra madre, la nostra storia narra di due innamorati particolari, un frate e una suora, coinvolti da un sentimento così profondo da far loro rinunciare alla vocazione.
La tradizione orale ha fatto arrivare sino a noi due versioni: nella prima i due innamorati, riconoscendo l’impossibilità di coronamento del loro sogno d’amore e temendo il giudizio delle autorità ecclesiastiche, decisero di abbandonare le vesti talari e fuggirono dai loro conventi a Sant’Antioco nella speranza di avere una vita coniugale felice in altro luogo. La leggenda narra però che, giunti poco distante dalla piccola isola, furono investiti dall’ira divina che li tramutò in pietra scoprendoli nella loro fuga.
La seconda versione invece narra di un giovane che, in cerca di asparagi nei campi dell’istmo, colse in flagrante i due innamorati travolti dalla passione dell’atto carnale e riconoscendo in essi i due ecclesiasti grazie ai loro abiti poco lontani, invocò l’intervento divino. Poco dopo, il giovane vide i due corpi trasformarsi in pietra proprio in quel punto. In entrambe le versioni della storia, il frate e la suora pietrificati, rimasero eretti nel terreno quale monito e avvertimento del possibile castigo per chiunque avesse commesso un simile atto impuro.
I due megaliti monolitici di Su Para e Sa Mongia (il frate e la suora), situati a poca distanza dalla Strada Statale 126, sono dunque la testimonianza di questo tragico evento. L’areale, caratterizzato dall’ingente presenza di stagni e saline di Santa Giusta, di rilevanza comunitaria sia per la fauna che per la flora presente e importante punto di sosta per numerosi uccelli durante la migrazione, ha l’aspetto di una vasta pianura nella quale spiccano i due alti blocchi riconducibili all’età preistorica.
Nell’area, probabilmente sede di un villaggio databile alla cultura di Ozieri (tra il 3200 e il 2800 a.c.), i due blocchi in trachite sono ben visibili, anche in lontananza, grazie all’imponenza della loro mole. Su Para, con le facce rivolte verso sud-ovest e nord-ovest, è alto tre metri, un diametro conico, con incavi e protuberanze che richiamano le fattezze maschili. Sa Mongia è alto due metri e presenta una protuberanza e svariate coppelle tipiche della figura femminile ma risulta rivolto verso sud-est e nord-est quasi che i due innamorati potessero guardarsi negli occhi ma non essere abbastanza vicini da toccarsi. Le sembianze e la posizione dei due blocchi hanno così fatto in modo che le due figure fossero elette a simbolo di un amore eterno e indissolubile nonostante le avversità.
La leggenda del frate e della suora però non ha alcun fondamento di verità ma ricade tra le numerose narrazioni della tradizione orale popolare dovute soprattutto alla necessità di dare una ragion d’essere a quelle particolari presenze preistoriche. I menhir infatti hanno da sempre goduto di una certa aura di mistero e fascino tanto da creare magiche leggende come questa. La Sardegna è una tra le regioni d’Italia con il maggior numero di monoliti, noti col nome di “perdas fittas” (pietre conficcate, in sardo), la cui presenza conferisce da sempre un aspetto fiabesco al paesaggio sia che siano numerosi o in coppia come nel caso di Su Para e Sa Mongia.
Sono particolari luoghi surreali che stimolano la fantasia e acutizzano il nostro lato sensoriale. Probabilmente scolpiti con fattezze umane per celebrare gli antenati, i menhir erano luogo di preghiera e di culto in varie fasi della vita nel villaggio, la loro superficie veniva toccata, cosparsa di liquidi o adornata da omaggi nel momento del parto o del concepimento, per propiziarsi le divinità durante il passaggio all’aldilà o per invocare la fertilità nei campi. I riti, spesso cruenti, erano mal visti dalla Chiesa che fece di tutto per ostacolarli arrivando anche all’abbattimento di alcuni di essi. Fortunatamente però circa 740 menhir sono ancora presenti in Sardegna e il loro carattere sacro si mantiene ancora in vita.
Importante testimonianza della preistoria isolana, sono sparsi un po’ in tutto il territorio, isolati o in coppia ma anche allineati in file parallele o a formare cerchi concentrici. La loro superficie mostra i segni dei vari tentativi del renderla liscia, con una tecnica detta “a martellina”. Queste grandi sculture megalitiche dalle sembianze antropomorfe sono più o meno slanciate e definite, alcune completamente lisce con una faccia concava e una convessa, altre con parti del viso, spesso il naso o gli occhi, e i caratteri sessuali maschili o femminili, altre ancora più complete aggiungono anche cenni del rango sociale.