Vite sospese e storie di ordinaria infelicità in “Due Fratelli” di Fausto Paravidino, testo cult del Novecento (vincitore del Premio “Pier Vittorio Tondelli” – sezione under 30 del Premio Riccione Teatro nel 1999 e e del Premio Ubu per la migliore novità italiana nel 2001), in cartellone giovedì 9 febbraio alle 21:00 al Cine/Teatro “Olbia” di Olbia e poi in tournée nell’Isola per un duplice appuntamento sabato 25 febbraio alle 21:00 al Teatro Civico di Alghero e domenica 26 febbraio alle 21:00 al Teatro Civico “Oriana Fallaci” di Ozieri sotto le insegne della Stagione 2022-2023 de La Grande Prosa organizzata dal CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna.
Una commedia nera che indaga il disagio giovanile, il malessere e la confusione di una generazione priva di ideali e di speranze per il futuro: i protagonisti trascorrono le loro giornate apparentemente senza impegni di studio o di lavoro, compongono lettere “immaginarie” e si confrontano con le piccole e banali incombenze del quotidiano, in una convivenza resa difficile da tensioni sotterranee e legami di sangue, alleanze e antagonismi, culminante in una tragedia annunciata.
“Due Fratelli” – nella mise en scène de L’Effimero Meraviglioso, con Noemi Medas, Federico Giaime Nonnis e Leonardo Tomasi, per la regia di Maria Assunta Calvisi – si svolge nello spazio claustrofobico di un appartamento in città, che Boris e Lev dividono con una coinquilina, Erika, dal passato enigmatico: tra i due uomini esiste un rapporto strettissimo, quasi simbiotico, fondato sulle radici comuni e su vicende familiari cui si allude in modo ambiguo, in cui si inserisce, o meglio si insinua, quasi inconsapevolmente, nel ruolo di pericolosa e conturbante femme fatale, la donna indipendente e spregiudicata, quale simbolo del caos.
Uno strano “triangolo” per un racconto pieno di suspense, dove i personaggi si rivelano solo in parte, attraverso conversazioni frammentarie, tra le pulsioni contrapposte di eros e thanatos, amore e morte, e il sentimento dominante di una fratellanza fatta di ricordi condivisi, di solidarietà e forse “complicità”. Un linguaggio scarno ed essenziale mette a nudo i fatti, in una chiave spesso conflittuale, come se fosse impossibile per quei tre raggiungere una qualche armonia: Boris e Lev vivono in un loro mondo, un microcosmo ordinato, i cui confini sono dettati dalle loro idiosincrasie e paure, dalle loro inquietudini, in cui non sono ammesse interferenze o influenze esterne.
Fotografia di una gioventù allo sbando, senza ambizioni né progetti, “Due Fratelli” – originale e avvincente “tragedia da camera” – si consuma nell’indifferenza e nella brutalità di una condizione quasi “selvaggia”, un ritorno all’infanzia, tra impulsi e bisogni primordiali che prevalgono sulla ragione: sottratti allo sguardo vigile di una madre o di un padre, che si presume esistano da qualche parte insieme a un’altra figlia, in attesa di “buone” notizie sui loro “successi”, i due giovani si trovano in una condizione privilegiata, che permette loro di non doversi guadagnare il pane.


Ipotesi sulle loro origini e sulla loro famiglia non trovano risposte “concrete” nel testo, solo vaghi accenni da cui si potrebbe dedurre tutto e il contrario di tutto: i dialoghi lucidi e spietati, talvolta venati d’ironia, lasciano supporre una qualche forma di educazione, in un percorso che poi è come interrotto, fino a precipitare nell’inerzia di quelle giornate sempre uguali, tra momenti di svago e turni di pulizie, di una normale routine domestica.
In un appartamento in una città sconosciuta si consuma il dramma di tre vite senza significato e senza scopo, salvo occasionali allusioni a forze armate e esercitazioni militari, che corrispondono a un tempo di partenze e addii, il vuoto di un’assenza in cui si creano nuovi equilibri e nuove strategie di sopravvivenza, un nuovo ordine, subito stravolto nell’ora del ritorno. Un fiume di parole e di pensieri scandiscono e sostituiscono le azioni, in un luogo dove non sembra accadere nulla ma può succedere di tutto: ogni affermazione, come ogni domanda e ogni rifiuto, si carica di sottintesi, sembra innescare una situazione pericolosa, riapre ferite nascoste, colpisce punti vulnerabili, tocca nodi irrisolti.
La storia dei “Due Fratelli” è piena di lacune, nulla è dato sapere sulla loro provenienza e la loro destinazione, come incerta fino a un certo punto è la sorte di Erika, il cui destino per caso si è intrecciato a quello dei due giovani: la donna rappresenta l’estranea, l’elemento catalizzatore di rivalità sopite, la ribelle che non si assoggetta alle regole, colei che è capace di amare, di sedurre e di respingere, una creatura pensante e senziente, la nota dissonante nell’accordo.
La pièce, scritta alla fine degli Anni Novanta, sulla vicenda emblematica dei “Due Fratelli”, conserva ancora una forte attualità: ritratto di «una generazione, in un periodo molto complesso per la storia italiana… a distanza di vent’anni si possono cogliere i segnali di disagio e disorientamento che persistono, se non per alcuni versi ingigantiti, nella società che stiamo attraversando» sottolinea la regista Maria Assunta Calvisi –. I protagonisti, Boris e Lev, insieme con la loro coinquilina Erika, si rivelano «attraverso i piccoli riti della quotidianità che nascondono tensioni, provocazioni, fino ad arrivare a violenze verbali e non solo. La mancanza di obiettivi e di un perché che possa dar senso alle loro vite si nasconde sotto dialoghi scarni, serrati, a volte illogici e apparentemente privi di senso. E questo è il loro dramma: da che parte va la loro vita e che significato hanno i loro rapporti. Si amano? Si odiano? Il finale dà compimento alla tragedia, in fondo preannunciata e sospettata sin dall’inizio di questa storia di vite spezzate».