Viaggio nella storia del Novecento ne “Il cacciatore di nazisti / L’avventurosa vita di Simon Wiesenthal” con drammaturgia e regia di Giorgio Gallione, nell’interpretazione intensa e convincente di Remo Girone, attore di teatro e cinema, diretto sulla scena da artisti come Enrico D’Amato, Luca Ronconi, Orazio Costa, Mauro Avogadro, Andrée Ruth Shammah e da Peter Stein in un memorabile “Zio Vanja” premiato a Edimburgo, e sul grande schermo da Miklós Jancsó e Marco Bellocchio, Ettore Scola, Cinzia TH Torrini e Peter Greenaway, apparso in numerose serie e fiction televisive, dal successo ne “La Piovra” nel ruolo di Tano Cariddi alla recente “Vostro Onore”. L’artista, nato ad Asmara, in Eritrea, poi trasferitosi in Italia per compiere gli studi universitari, ma diplomatosi invece all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, presta voce e volto al “James Bond ebreo”, un architetto vittima delle persecuzioni antisemite che, sopravvissuto alla deportazione e all’orrore dei lager, ha dedicato la sua esistenza all’identificazione e alla condanna dei nazisti, colpevoli di efferati crimini contro l’umanità.
La pièce ispirata ai libri e alle memorie di Simon Wiesenthal, in cartellone giovedì 15 febbraio alle 21 al Teatro del Carmine di Tempio Pausania, venerdì 16 febbraio alle 21 al Teatro “Antonio Garau” di Oristano, sabato 17 febbraio alle 21 al Teatro “Tonio Dei” di Lanusei e infine domenica 18 febbraio alle 21 al Teatro Centrale di Carbonia sotto le insegne della Stagione 2023-2024 de La Grande Prosa organizzata dal CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna, «si interroga non solo sulla feroce banalità del male ma anche sulla sua genesi» – come si legge nella presentazione – per raccontare la tragedia della Shoah attraverso la testimonianza di una delle vittime: una moderna epopea trasfigurata in uno spettacolo di teatro civile «per combattere la rimozione e l’oblio».
«Non voglio che le persone pensino che è stato possibile che i nazisti abbiano ucciso milioni di persone e poi l’abbiano fatta franca» – afferma Simon Wiesenthal -. «Ma io voglio giustizia, non vendetta». Un monito per tutti coloro che intendessero emulare le empie gesta e le efferate stragi compiute durante il Terzo Reich per preservare la cosiddetta “purezza della razza” in nome della presunta “superiorità ariana” con l’illusione di godere di una qualche impunità, acquistata a caro prezzo attraverso la corruzione e la fuga all’estero, ovvero dietro la maschera dei semplici “esecutori di ordini”, votati all’obbedienza, incapaci di pensieri e emozioni propri, meri ingranaggi di una macchina infernale. Ma pure per fornire indirettamente una risposta alla crudele insinuazione, quasi un’ammissione di colpa, da parte dei carnefici che Wiesenthal definisce «la più cinica delle armi psicologiche utilizzate dalle SS contro i prigionieri dei Lager: “Il mondo non vi crederà. Se anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti”».
“Il cacciatore di nazisti / L’avventurosa vita di Simon Wiesenthal” è uno spettacolo teatrale originale, scritto e diretto da Giorgio Gallione, che firma anche il progetto artistico insieme con Gianluca Ramazzotti, con scene e costumi di Guido Fiorato e disegno luci di Aldo Mantovani (assistente alla regia Matteo Magazzù, assistente alla scenografia Lorenza Gioberti); i costumi sono di Sorelle Ferroni, l’organizzazione generale è curata da Giulio Corrente; produzione Ginevra Media Production e Teatro Nazionale di Genova (distribuzione PigrecoDelta).
Nei teatri dell’Isola va in scena il racconto di una esistenza straordinaria, iniziata a Bučač (Butschatsch in tedesco), una piccola città della Galizia, all’epoca sotto l’Impero Asburgico, dove Simon Wiesenthal nacque il 31 dicembre 1908: abituato fin da ragazzo a fare i conti con obblighi e limiti imposti agli ebrei, riuscì comunque a compiere gli studi d’ingegneria civile e architettura a Praga e a Leopoli, per poi ritrovarsi all’inizio della seconda guerra mondiale, a seguito del Patto Molotov-Ribbentrop, in una Leopoli sotto l’egida dell’URSS, costretto, dopo l’uccisione del patrigno e del fratellastro a opera del famigerato NKVD, a rinunciare alla sua professione per mettersi a lavorare in fabbrica. Finché con l’invasione della Polonia da parte della Germania, nel 1941, gli eventi precipitarono. Wiesenthal e la sua famiglia subirono la sorte comune alla popolazione di origine ebraica: centinaia di donne, uomini, vecchi e bambini vennero imprigionati e inviati nei campi di concentramento. Tra varie peripezie, l’architetto riuscì in qualche modo a sopravvivere all’internamento in cinque lager, per essere infine liberato dalle forze americane a Mauthausen il 5 maggio del 1945; la moglie Cyla era invece riuscita a fuggire grazie ai documenti falsi ottenuti dalla resistenza polacca, in cambio dei disegni delle linee e degli scambi ferroviari realizzati dal marito, ma i due sposi poterono ritrovarsi solo al termine del conflitto, dopo aver ignorato per anni la sorte l’uno dell’altra. La loro figlia venne chiamata Pauline Rosa, come le due nonne scomparse nella tempesta della Shoah.
Tra i rari superstiti di una immane tragedia, Simon Wiesenthal cominciò da subito a collaborare con la War Crimes Section istituita dagli alleati per ricostruire i crimini nazisti, in una vasta indagine che portò al Processo di Norimberga, per poi proseguire l’opera di ricerca attraverso il Centro di Documentazione Ebraica, dapprima a Linz poi a Vienna, con l’obiettivo di seguire le tracce dei gerarchi e degli ufficiali tedeschi rifugiatisi all’estero, spesso sotto falsa identità, dopo la caduta del Terzo Reich. Una scelta nata dall’esigenza di restituire voce e dignità alle migliaia di vittime innocenti e di consegnare i colpevoli alla giustizia, mettendoli di fronte alle loro responsabilità, poi diventata la sua “missione” e portata avanti con caparbietà e determinazione anche dopo che i fragili equilibri della “guerra fredda” avevano portato all’attenzione altre questioni urgenti e imminenti crisi politiche in diverse regioni del globo. Il suo spiccato interesse per l’architettura, che aveva animato gli anni giovanili e indirizzato i suoi studi, lasciò il posto a una accesa e inesauribile passione per la verità: Simon Wiesenthal divenne il “cacciatore di nazisti”, contribuendo alla cattura di Adolf Eichmann, il grigio “burocrate” che ispirò ad Hannah Arendt lo sconvolgente e illuminante saggio su “La banalità del male”, come all’identificazione di Karl Silberbauer, il sottufficiale della Gestapo responsabile dell’arresto di Anna Frank (assolto e reintegrato per «aver fatto solo il suo lavoro», la sua testimonianza ha però confermato l’autenticità del “Diario”); di Franz Stangl, comandante dei campi di prigionia nazista di Treblinka e Sobibór; di Franz Murer, “il macellaio di Vilnius”; di Hermine Braunsteiner, responsabile di crimini, abusi e atti di sadismo nei confronti di donne e bambini che avviava alle camere a gas, nel campo di Majdanek.
Tante esistenze spezzate, tanti destini che si incrociano, in una delle pagine più cupe del ventesimo secolo: la follia nazista ha travolto la civile Germania, trasformando la patria delle arti e della filosofia in un regno del terrore, fino a invadere l’Europa, sull’onda dei successi militari delle forze hitleriane, imponendo le discriminazioni delle assurde “leggi razziali” per giungere fino alla deportazione e allo sterminio, con l’elaborazione della “soluzione finale”. Il “sonno della ragione” confonde le menti e ammansisce le coscienze, un intero popolo si fa dominare dall’ambizioso sogno e dalla mania di grandezza del Führer, i tentativi di opposizione e le reazioni, che pure non mancano, vengono spente nel sangue in un crescendo di violenza, finché gli spiriti illuminati, gli intellettuali e gli artisti, gli avversari del regime e gli stessi ebrei cercano rifugio all’estero o vengono spazzati via da una furia devastatrice. Sulle macerie della Seconda guerra mondiale, cade l’ombra di un genocidio freddamente pianificato e purtroppo organizzato con grande efficienza, con l’uccisione di milioni di persone: mantenere vivo il ricordo della tragedia della Shoah è fondamentale affinché quel che è accaduto non si ripeta mai più.
Ne “Il cacciatore di nazisti / L’avventurosa vita di Simon Wiesenthal” il sipario si apre sul protagonista, nel suo ultimo giorno di lavoro nel Centro di Documentazione Ebraica da lui fondato, circondato dall’archivio che custodisce i risultati di un impegno durato quasi sessant’anni, durante i quali l’architetto è diventato scrittore, consegnando alle stampe libri e memorie di un’impresa titanica, ma pure necessaria, per tenere accesa la fiaccola della verità. Una realtà incontestabile che gli stessi liberatori ritennero opportuno fotografare e filmare, trovandosi davanti agli occhi uno spettacolo terribile, al di là di ogni immaginazione, certi che se avessero provato a descriverlo nessuno gli avrebbe creduto: una distopia divenuta concreta in cui veniva negato ogni principio di umanità.
La pièce narra la vicenda di un “eroe” moderno, di un testimone che ha fatto proprio il peso di tante esistenze spezzate, il dolore di milioni di persone, di tutti e di ognuno: «Le ferite che ci sono state inferte non guariranno mai. Ma siamo sopravvissuti, e il fatto di essere ancora in vita ci impone alcuni obblighi…» spiega Wiesenthal in un passaggio cruciale di “Max e Helen” -. «Io non mi porto soltanto dietro il ricordo di ciò che ho personalmente subito, ma anche di ciò che molti testimoni mi hanno confidato dei loro personali tormenti. E a volte accade che i confini tra me e loro scompaiano, e allora mi riesce difficile distinguere tra la mia esperienza e quella di un altro». La sua incessante ricerca si nutre non solo dell’esigenza di punire i colpevoli, ma anche e soprattutto della consapevolezza del dovere morale di prestare ascolto alle vittime, di offrire a coloro che hanno vissuto esperienze terrificanti la possibilità di parlarne, di confrontarsi con quell’incubo e di ricevere comprensione e solidarietà umana in un mondo che tende sempre più all’indifferenza e all’oblio.