Chi non si è mai soffermato, almeno per qualche minuto, a guardare con un misto di compiacimento e terrore le sfuriate di uno dei tanti chef che imperversano nei programmi televisivi dedicati alla cucina?
Disgustati da tempi di cottura sbagliati, orripilati da salse poco addensate, nell’ultima quindicina di anni numerosi cuochi stellati sono usciti dai loro ristoranti d’eccellenza e si sono trasformati in vere e proprio star del piccolo schermo, investiti da un’ondata di consenso popolare che, almeno in apparenza, ha ben poco a che spartire con la selezionata clientela a cui sono destinati i loro locali d’élite.
Il film “The Menu”, nelle sale dal 17 novembre, mette a fuoco alcune delle contraddizioni della cucina moderna di alto livello, intesa come esperienza esclusiva appannaggio di pochi eletti e, contemporaneamente, “data in pasto” al pubblico generalista della televisione, e trasforma il ristorante in cui si svolge la trama del film, scritto da Seth Reiss e Will Tracy, in un palcoscenico, in cui a essere davvero protagonisti non sono ricette sopraffine e impiattamenti artistici, ma vizi e virtù della “società dei social media”, più dedita a coltivare l’apparenza che la sostanza e spesso incline a farsi conquistare da sedicenti guru.
Il protagonista del film, lo chef Julian Slowik (Ralph Fiennes), ricalca negli atteggiamenti alcuni celebrity chef come Gordon Ramsey e proclama un’idea di cucina esclusiva, destinata a pochi eletti in grado di comprenderla e, soprattutto, pagarla: nel suo ristorante, l’Hawthorne, situato su una piccola isola disabitata, Slowik propone un’esperienza filosofico/culinaria, in un avvicendarsi di piatti di cucina molecolare da cui lasciarsi conquistare, come si trattasse di un’idea rivoluzionaria o di un nuovo stile di vita.
12 coperti, dunque, 12 clienti che pagano 1250 dollari per una cena indimenticabile, in cui Slowik dirige con piglio militare una brigata capace di muoversi nella cucina a vista del ristorante con inquietante precisione: quasi come un predicatore, lo chef introduce ai suoi avventori-adepti ogni portata con lunghe presentazioni seguite da scroscianti applausi. I clienti dell’Hawthorne, d’altra parte, incarnano le differenti tipologie di pubblico che la spettacolarizzazione dell’arte culinaria ha contribuito a creare: c’è Tyler (Nicholas Hoult), gourmand che disquisisce di ingredienti pregiati e consistenze più o meno vellutate, ma “non sa nemmeno affettare una cipolla”; c’è la celebre critica gastronomica Lillian Bloom (Janet McTeer), che con efferatezza si vanta di poter “far chiudere un ristorante scrivendo un articolo”, accompagnata dal suo fin troppo asservito editore Ted (Paul Adelstein); ci sono tre lanciatissimi imprenditori esperti d’informatica, Dave (Mark St. Cyr), Soren (Arturo Castro) e Bryce (Rob Yang), che incarnano un’idea di successo sul modello “Elon Musk”, e c’è una famosa star del cinema, (John Leguizamo), vanesia e capricciosa, insieme alla sua assistente Felicity (Aimee Carrero), che medita di licenziarsi.
C’è, soprattutto, Margot (Anya Taylor-Joy), invitata alla cena esclusiva dal presunto buongustaio Tyler, ma assolutamente disgustata dal suo atteggiamento nei confronti di Slowik, che sfiora l’idolatria, e disinteressata all’esperienza culinaria che lo chef propone, di cui sembra essere l’unica a vedere l’insensatezza.
Margot, dunque, accetta di partecipare alla serata per curiosità, ma si dimostra subito pronta a distruggere, con sarcasmo, la religione culinaria di Slowik, rifiutandosi di partecipare al rito, di “gustare” (il verbo utilizzato dallo chef nella versione originale è sempre “to taste”, mai “to eat”) i suoi piatti, che paradossalmente, nonostante la loro composizione sofisticata, le paiono inconsistenti; lo spirito critico della ragazza mette in allerta lo chef e la sua imperturbabile assistente Elsa (Hong Chau), ma al contempo rappresenta la leva narrativa che fa progredire il film e lo tiene in bilico tra generi diversi.
Margot infatti, scheggia impazzita di un rituale consolidato sera dopo sera, comprende che nella messa in scena di Slowik c’è un disegno preciso, che mira a una vendetta attuata secondo modalità via via più raccapriccianti, in un gioco tanto esclusivo quanto pericoloso; i toni della commedia pungente, dunque, si tingono di sfumature dark e man mano che il passato dei personaggi si svela, con ritmi che rimandano a pause e accelerazioni dei moderni thriller, appare chiaro quanto il ristorante esclusivo, tra cucina organizzata militarmente e sala popolata di una piccola folla animata da un “pensiero unico”, sia metafora della società moderna, della sua superficialità, capace di ridurre perfino qualcosa di profondamente sostanziale come il cibo a una spuma che ha la consistenza transitoria di un prodotto per capelli. L’esclusività e l’essenzialità, dunque, finiscono per trasformare l’esperienza culinaria in un vuoto beffardo e crudele.
Non a caso il regista della pellicola Mark Mylod vanta nel suo curriculum la serie “Shameless”, che dal 2011 al 2018 ha dipinto con tratti decisamente dissacranti la società americana; il produttore Adam McKay, invece, è lo stesso, impietoso regista di “Don’t Look Up”, film in cui si evidenzia l’incapacità, da parte della società più “social” e connessa di sempre, di comprendere e interpretare la realtà, anche quando questa assume le sembianze di un asteroide che minaccia di schiantarsi sulla Terra. È, in definitiva, una risata amara quella che scaturisce dalla consultazione di questo “menù” e mai come in quest’epoca, probabilmente, suggerisce che “siamo ciò che mangiamo”. O che scegliamo di “non mangiare”.