Sono numerosi i riferimenti letterari e cinematografici che hanno nutrito l’immaginario di Coralie Fargeat, nel momento in cui ha scritto e, successivamente, diretto “The Substance”, lungometraggio presentato in concorso all’ultima edizione del Festival del Cinema di Cannes e vincitore del Prix du scénario per la migliore sceneggiatura; la stessa regista, del resto, ha efficacemente riassunto le sue fonti d’ispirazione intessendo un filo rosso che unisce al romanzo capolavoro di Oscar Wilde “Il ritratto di Dorian Gray”, la dissacrante commedia di Robert Zemeckis “La morte ti fa bella” e le celebri video-lezioni di aerobica di Jane Fonda.
Se pensate che le opere citate non abbiamo niente a che vedere l’una con l’altra, state forse vivendo la stessa sensazione di straniamento provata da gran parte della critica e del pubblico che ha già potuto vedere il film, in uscita nelle sale italiane a partire dal 30 ottobre: giusto in tempo per Halloween, si potrebbe dire, dal momento che “The Substance” può essere annoverato nel genere body horror, con punte molto elevate di gore, “sangue”, che scorre abbondante, grondando da corpi squarciati con modalità alquanto disturbanti.
Per gli amanti del genere, il riferimento non può che essere David Cronenberg, ma del resto chi conosce la pur breve filmografia di Coralie Fargeat, già regista di un “rape and revenge” da manuale, il durissimo “Revenge”, non sarà sorpreso dalla potenza visiva del film, che si gioca su inquadrature estreme e insistite, assai poco indulgenti rispetto alla brutalità della sofferenza fisica e psicologica della protagonista della storia, sottoposta a grottesche trasformazioni. Si racconta la discesa nell’abisso di Elizabeth Sparkle, a cui presta il volto Demi Moore, ex star di Hollywood vincitrice di un Oscar oltre che sex symbol conclamata, reinventatasi come icona del fitness in un programma televisivo che la mantiene sulla scena, in contatto con il pubblico, seppure non tra le luci più sfolgoranti del mondo dello spettacolo.
La situazione precipita quando Elisabeth compie 50 anni e Harvey (Dennis Quaid), il produttore della trasmissione, le comunica che è ormai diventata troppo vecchia per mantenere il suo lavoro; la donna precipita nella disperazione e decide di accettare la proposta di un personaggio misterioso, che le propone l’utilizzo di una sostanza miracolosa, in grado di restituirle una versione più giovane di se stessa. Una volta assunto il siero, Elisabeth produce per partenogenesi, dalla propria spina dorsale, una giovane di nome Sue (Margaret Qualley): le donne, che dovrebbero condividere la medesima coscienza, sono chiamate ad alternare la loro presenza nel mondo reale, una settimana per ciascuna, in modo da poter essere l’una il sostentamento dell’altra.
Se in un primo momento Elisabeth e Sue riescono a trovare un equilibrio che permette loro di vivere pienamente questa esistenza condivisa, ben presto la fame di vita spinge la donna più giovane, che nel frattempo ha perfino preso il posto della sua creatrice nel programma televisivo di fitness, a non rispettare più i limiti imposti; per Elisabeth comincia un drammatico percorso di trasformazione, le cui tappe segnano il suo corpo in maniera irrimediabile.
I temi toccati dal film, com’è facile intuire già da questa scarna trama, sono molto attuali e vengono trattati con un’estetica volutamente scioccante, che trasferisce sulla carne di un corpo femminile votato alla bellezza un forte disagio psicologico; indubbiamente la Fargeat critica l’ossessione per la giovinezza che pervade l’industria cinematografica di Hollywood, così come i social media, colpendo in particolare le donne, a cui ancora oggi vengono richiesti standard di bellezza quasi impossibili da mantenere nel tempo, con il ricorso quasi scontato a pratiche estetiche più o meno invasive.
La pellicola, tuttavia, non si limita a denunciare questa tendenza consolidata nello show business, quanto piuttosto a indurre una riflessione sul modo di guardare a noi stessi, su quello sguardo distorto che lo specchio ci restituisce, inducendoci spesso a intraprendere una crudele battaglia autolesionista.
Non è un caso che il film sia costellato di superfici riflettenti e che una delle scene più segnanti della pellicola sia ben poco sanguinolenta e veda piuttosto la protagonista davanti allo specchio, intenta a truccarsi: il risultato del make-up non è mai all’altezza delle aspettative e l’insoddisfazione di Elisabeth verso il proprio aspetto si trasforma ben presto in un rabbioso senso di inadeguatezza.
Se è vero che il film non chiarisce mai del tutto, e forse volutamente, la questione della coscienza condivisa, è altrettanto vero che Elisabeth e Sue sono due facce della stessa medaglia, rappresentate nello strazio di un corpo che lotta contra se stesso: Demi Moore, interprete di personaggi femminili estremamente seduttivi, così come di donne volitive in lotta per affermarsi in un mondo maschile, più volte criticata per gli interventi estetici che ne avrebbero modificato i connotati tanto da renderla irriconoscibile, si confronta con un ruolo che sembra scritto appositamente per lei: carne e sangue non distraggano dal senso profondo, in parte meta-cinematografico, di una pellicola che gioca sottilmente con l’orrore più reale che possa esistere: quello che scava quotidianamente dentro di noi, attraverso specchi e schermi più o meno presenti nella nostra vita.