Questa storia comincia in un bar come tanti, al centro di una città come tante, nel bel mezzo di una giornata come tante. Un uomo e una ragazza sono seduti a un tavolino di marmo, davanti a un cappuccino e a un ginseng: lei guarda con naturalezza l’ambiente che la circonda, perché è solo un momento come tanti di una giornata come tante.
Lui no, non ha occhi che per lei: non ha mai avuto occhi che per lei, e questo lei lo sa, ma non le importa, o forse sì.
Nel tavolino accanto, una copia abbandonata della Gazzetta dello sport: in prima pagina, un titolo a nove colonne sui mondiali che stanno per cominciare, i primi da secoli senza l’Italia, eliminata con ignominia da un manipolo di boscaioli svedesi. Lei guarda quel giornale con quella curiosità che l’ha sempre caratterizzata, quella curiosità che troppe volte a lui ha spaccato il cuore.
“Ho sentito tante storie sui Mondiali, ma nessuna che mi abbia davvero conquistato. Voglio dire…a me piacciono le storie, ma non penso che il calcio possa creare storie in grado di farmi palpitare il cuore, di generare emozioni che cambiano vite, al di là di quel rettangolo verde su cui tu perdi la testa ogni domenica”.
“E sbagli”, risponde lui, senza distogliere gli occhi dai suoi. “Io ti posso raccontare la storia di una partita che ha veramente sconvolto vite intere, ben al di là dei fatidici novanta minuti. È la storia di una partita, ma più che altro è la storia di una maledizione”.
“Una partita, una maledizione? Di cosa stai parlando? Dai racconta”.
Un lampo di interesse negli occhi di lei, un lampo di passione negli occhi di lui: una storia per cinque minuti con te. La mia maledizione.
“Sto parlando… dei maledetti del Maracanà. E questa è la loro storia”.
Svanisce il bar, svanisce la città, svanisce quella giornata comune, sfumata nelle immagini di Rio de Janeiro nel luglio del 1950: nelle immagini di una città simbolo di un regime che ambiva a sublimare la propria grandezza tramite il mito di una squadra talmente forte da trasformare la vittoria dei Mondiali nel momento iniziale di un colossale rito collettivo, una squadra da celebrare con un monumento in grado di perpetrarne la grandezza agli occhi delle generazioni future. Uno stadio da duecentomila posti, lo stadio più grande del Mondo, creato apposta per la finale di quel mondiale destinato a consacrare la storia del Brasile e dei suoi caudillos.
Il Maracanà.
Già, era una grande squadra quel Brasile in maglia bianca: c’era Josè Carlos Bauer, O monstro, davanti alla difesa; c’era una coppia di attaccanti tutta samba e fuoco come quella composta da Ademir e Friaça; c’era Zizinho, l’idolo incontrastato di Copacabana; e in porta, la pantera nera Moacir Barbosa, il portiere che non sbagliava mai.
Un gruppo di semidei in camiseta blanca, la venerazione di duecentomila anime accorse per celebrare il sacro rito della vittoria della squadra e del paese, un tempio creato per esaltare la potenza di quel rito. C’erano tutte le componenti per salire in Paradiso, ma nessuno dei duecentomila sugli spalti e degli undici semidei in campo sapeva che il Maracanà avrebbe rappresentato, per loro, la porta dell’Inferno.
Sì, perché davanti ai blancos di Rio, in quel Fatidicu del luglio del 1950, c’era un Uruguay pronto a scrollarsi di dosso l’etichetta della vittima sacrificale. E se Zizinho esibiva la hybris di Achille, la tracotanza fiera e un po’ cialtrona di chi si sente invincibile fino al tallone, a guidare la Celeste c’era un Capitano nero che di Ettore aveva davvero coraggio e nobiltà: Obdulio Varela, un negro nato e cresciuto vendendo giornali nei quartieri più poveri di Montevideo. Uno che conosceva la povertà, e che non poteva permettersi di conoscere la paura. Un nero, un capitano, uno senza paura.
Ecco, la paura. Obdulio forse aveva visto la paura negli occhi dei suoi compagni, prima di varcare la porta del Maracanà, prima di andare a sbattere sul muro di quei dannatissimi duecentomila.
Ma basta un’occhiata, una frase e la paura sparisce: ¡Los de afuera son de palo!, quelli là fuori non esistono. La partita la giochiamo solo su quel rettangolo verde, e se il Brasile ha Ademir e Friaça, noi abbiamo gli scatti di Moràn e la lanterna magica di Alcides Ghiggia, l’ala destra in grado di comparire e scomparire con un gioco di gambe e un paio di mosse di quel baricentro troppo basso per essere intercettato dai campesinos avversari. E soprattutto, se il Brasile si specchia nella classe di Zizinho, il Futbòl vero è vestito di Celeste, ha i baffetti alla Clark Gable e il piede geometrico di Pepe Schiaffino: uno capace di tirare giù una lattina di birra dalla traversa con un tiro da trenta metri, uno che la palla la mette davvero dove vuole.
Sì, il Paradiso poteva attendere i Brasiliani, anche quando Friaça piazzava l’accelerazione del 1-0, anche quando il Maracana iniziava a ruggire come un leone che ha appena assaggiato la prima goccia di sangue. Obdulio prende la palla, e lentamente la porta verso il centro del campo: ¡Los de afuera son de palo!, il Paradiso è lontano, fate prima a scivolare all’Inferno. Perché la lanterna magica di Ghiggia è entrata in funzione: scatto sulla destra, finta, controfinta, cross rasoterra. Chi arriva? Bauer O Monstro? No, El Futbòl vestito di Celeste: Pepe Schiaffino, baffo sottile, caviglia rigida e palla sotto l’incrocio dei pali.
Il pareggio teoricamente basterebbe ai brasiliani per laurearsi campioni, il Paradiso è ancora lì, a portata di mano. Ma senza successo, il rito del trionfo sarebbe spaccato a metà; un pareggio non basta, per celebrare il culto del Maracanà.
I brasiliani attaccano, sicuri della loro forza: tanto dietro hanno Moacir Barbosa, il portiere che non sbaglia mai. Finché la lanterna magica di Ghiggia si accende di nuovo: ancora uno scatto sulla destra, ancora finta e controfinta col baricentro attaccato a terra. Barbosa vede El Futbòl che arriva, istintivamente fa un passo verso il centro dell’area. E con quel passo sprofonda all’Inferno che si apre nel cuore del Maracanà: insieme a tutto il Brasile dei Generali. Ghiggia tira forte sul primo palo, l’angolo scoperto: è gol. Obdulio aveva ragione: ¡Los de afuera son de palo! E l’Uruguay è campione del Mondo.
Ritorna il bar, la città come tante, la giornata qualunque. Gli occhi della ragazza brillano come acqua di mare all’alba: “È una bella storia. Ma è una storia di calcio, di una vittoria inaspettata”. Lui non risponde subito: quegli occhi continuano a catturargli il cuore, e lui vorrebbe affogare in quella luce.
Dammi ancora cinque minuti, non farmi respirare.
“No, alla fine questa storia non ha vincitori. Ha solo maledetti”.
Per quel passo verso il centro dell’area, Moacir Barbosa vide la sua carriera sgretolarsi in un istante: declinò rapidamente, fino a scomparire nell’oblio. E quando, nel 1994, chiese di poter rendere visita alla Nazionale brasiliana che preparava il Mondiale americano, la Federazione gli negò perfino l’accesso alla sede del ritiro. Per tutti era “il colpevole”, per tutti era il reietto del Maracanà. Morì da solo, sepolto dal peso di una frase, ripetuta ossessivamente tra le pieghe di un sorriso sghembato dall’amarezza: “In Brasile la pena massima per un crimine è di 30 anni. Io ne sto scontando oltre 40 per un crimine che non ho mai commesso”.
“E Obdulio? E Il capitano nero?” Anche per lui il Paradiso poteva attendere: tornò in Uruguay, e finì come aveva cominciato. In povertà, ma senza mai conoscere la paura.
“E Ghiggia? Lui si salvò?” Non del tutto: la furia della torcida brasiliana gli costò la gamba sinistra e un anno di inattività. Torno a far risplendere la sua lanterna magica in Italia: tra Roma e Milano, scatto, finta e controfinta. Fino a spegnersi, mentre parlava di calcio: il 16 luglio del 2015, sessantacinque anni dopo quel tiro sul primo palo. La maledizione del Maracanà perdona, ma non dimentica.
Ancora quello sguardo all’acqua di mare, ancora quella sensazione di affogare: ancora cinque minuti. “Accidenti, quanto è tardi. Devo tornare al lavoro. Grazie per il caffè e… per la storia”. A quell’uomo resta solo un fondo di cappuccino, un giornale spiegazzato, un tavolino di marmo freddo. Resta il dolore per quei cinque minuti passati troppo in fretta, resta il dolore perché a lei non importa, o forse sì. E il pensiero che alla fine il Maracanà non regala il Paradiso a nessuno. Ma per un attimo, mentre si avvia verso il resto di quella giornata come tante, in quella città come tante, ha la sensazione di sentirsi meno solo: insieme a lui, in quel tavolino di marmo, non ci sono vincitori, solo altri maledetti. I maledetti del Maracanà.