Nelle sale cinematografiche a partire dal 2 febbraio, “Bussano alla porta”, l’ultimo film firmato da M. Night Shyamalan, è tratto dal romanzo “La Casa alla Fine del Mondo” di Paul Tremblay, vincitore nel 2019 del Premio Bram Stoker, ed è stato realizzato dopo una serie di lunghe vicissitudini: la prima sceneggiatura, infatti, è stata firmata da Steve Desmond e Michael Sherman, ma non è stata opzionata da alcun produttore, andando a piazzarsi nelle prime posizioni della black list in cui ogni anno confluiscono i progetti che, inspiegabilmente vista la loro qualità, non vengono realizzati.
È proprio la casa di produzione di M. Night Shyamalan, infine, ovvero la Blinding Edge Pictures, a opzionare la sceneggiatura, finché lo stesso regista non ha deciso di riscriverla e girare il film, sentendosi particolarmente coinvolto dai temi trattati: di certo chi conosce la filmografia di Shyamalan (“Il sesto senso”, “Unbreakable”, “Split” solo per citare alcuni titoli), non faticherà a capire perché il romanzo di Tremblay sia particolarmente affine alla sua poetica.
La vicenda si svolge nell’arco di 24 ore: Andrew (Jonathan Groff) e Eric (Ben Aldridge) sono in vacanza insieme alla loro figlia adottiva Wen (Kristen Cui) in montagna, in un grazioso chalet nel fitto del bosco; la permanenza procede serenamente finché la bambina non viene avvicinata da uno sconosciuto, che si presenta semplicemente come Leonard (Dave Bautista); nel giro di poco tempo, l’uomo irrompe nello chalet e, nonostante i tentativi di resistenza, immobilizza Andrew e Eric, con l’aiuto di altri tre sconosciuti armati. Leonard, Adrianne (Nikki Amuka-Bird), Sabrina (Abby Quinn) e Redmond (Rupert Grint) affermano di non conoscersi, ma di essere tutti e quattro perseguitati dalle stesse visioni, che profetizzano l’imminente Apocalisse. Unica condizione a che la catastrofe non si compia è che un membro della famiglia presa in ostaggio si sacrifichi e scelga la morte per salvare l’umanità.

Se inizialmente tra i tre malcapitati regnano disperazione e incredulità, oltre al sospetto di essere vittime di un atto di omofobia, col passare del tempo si insinua in loro il dubbio che effettivamente oltre il bosco stia succedendo qualcosa di terribile; dalla televisione, unico collegamento con il mondo esterno, sembrano infatti arrivare immagini inquietanti, che preannunciano un disastro globale.
In un crescendo di tensione, si impone uno dei temi principali del film: la scelta estrema per un bene superiore, che svela debolezze e crudeltà dell’essere umano. La condizione di isolamento, claustrofobica non solo perché la storia si svolge interamente all’interno dello chalet e nelle sue immediate vicinanze, ma soprattutto per l’impossibilità dei protagonisti di ricevere notizie certe riguardo ciò che sta accadendo nel mondo, mette alla prova i personaggi, per i quali sembra impossibile mantenere intatta la propria umanità; questa condizione non riguarda solo chi, nella storia, è vittima, ma anche i carnefici, guidati nel loro folle intento dal terrore per ciò che le visioni mostrano loro e insieme afflitti dal senso di colpa.
Altro tema fondamentale è quello della fede: “Ho frequentato delle scuole cattoliche e mi ha sempre affascinato la mitologia religiosa” ha dichiarato il regista durante le interviste rilasciate a Roma la scorsa settimana, in occasione della presentazione del film, “Nella storia ci sono evidenti richiami a temi e personaggi biblici, come la sacralità della famiglia o i quattro Cavalieri dell’Apocalisse. E per questo film mi sono domandato cosa potrebbe accadere oggi se le figure bibliche fossero persone comuni”.
Questa sovrapposizione, tra mitologia e realtà, è stata già esplorata da Shyamalan nella pellicola “Lady in the Water”, in cui delle persone comuni comprendono di ricoprire un ruolo ben preciso nel compiersi di un’antica favola, ma probabilmente è nel film “Signs”, in cui la famiglia protagonista è minacciata da un’invasione aliena e patisce la crisi di fede della figura paterna, che possono scorgersi i più profondi punti di contatto con l’ultima fatica del regista: “Quello della famiglia è un tema a cui tengo molto. Considero un incubo il fatto che un estraneo -chiunque sia- possa bussare alla porta e farci del male e credo che la pandemia abbia acuito l’insicurezza di molte persone, insieme alla diffidenza gli uni verso gli altri”.




Tra i quattro presunti Cavalieri dell’Apocalisse, spicca senza dubbio il personaggio di Leonard, a cui presta il volto Dave Bautista: “Dave è come un gigante che fisicamente mette paura e deve fare cose orribili, ma in realtà è incredibilmente sensibile ed è straziato da ciò che si ritrova costretto a fare”, ha spiegato il regista; lo stesso dilemma è vissuto dal personaggio di Sabrina, un’infermiera alle prese con una situazione in contrasto con i suoi principi: “Il film riflette il mio sentire, molto di ciò che sta succedendo nel mondo non è bello e non fa star bene, ma forse un atto d’amore può essere una prova sufficiente che l’umanità merita di andare avanti”.
Girato in due soli set (un’azienda agricola per gli esterni, un teatro di posa per gli interni dello chalet), con l’utilizzo di alcune lenti vintage degli anni ’50 e ’90, per differenziare i flashback dalla narrazione del presente, il film si discosta dal libro di Tremblay, soprattutto nel finale: come nella migliore tradizione di M. Night Shyamalan, dunque, gli ultimi minuti della pellicola promettono di sciogliere in modo sorprendente la tensione del racconto e il dilemma della scelta.