I nomi delle giornaliste Loretta McLaughlin e Jean Cole sono di certo meno noti dell’epiteto da loro creato per il serial killer che, tra il 1962 e il 1964, terrorizzò, in particolare, la popolazione femminile della città di Boston: in quel breve lasso di tempo, lo strangolatore di Boston uccise ben tredici donne, con un modus operandi raccapricciante -la sua firma consisteva nel legare attorno al collo delle vittime dei collant femminili in foggia di fiocco- e, allo stesso tempo, contraddittorio, almeno per alcuni aspetti. Si tratta di uno dei serial killer più famosi della storia americana recente e fu proprio il duo di reporter McLaughlin – Cole a individuare ed evidenziare sulle pagine del Record American la natura seriale degli omicidi, contribuendo alle indagini, nonché all’arresto del presunto colpevole. Il lavoro delle giornaliste fu gravato, oltre che dalla natura stessa del caso, particolarmente spaventosa, dalla scarsa collaborazione dei colleghi giornalisti e delle forze dell’ordine, che non gradivano l’intraprendenza delle croniste e ne mettevano costantemente in dubbio la professionalità.
Il film di Matt Ruskin, prodotto da Ridley Scott e già disponibile su Disney Plus, racconta con dovizia di particolari i casi dello strangolatore, ma pone al centro della narrazione proprio le vicende di Loretta (Keira Knightley) e Jean (Carrie Coon): la prima relegata a scrivere di piccoli elettrodomestici, la seconda, cronista più esperta, libera di scegliere le inchieste su cui lavorare solo in virtù di un’amicizia di vecchia data con il direttore del quotidiano Jack Maclaine (Chris Cooper). Per Loretta, in particolare, la situazione è particolarmente frustrante, perché vorrebbe entrare a far parte della redazione di cronaca, in cui lavorano soltanto uomini, ma le sue proposte di articoli vengono puntualmente rifiutate; in famiglia, inoltre, sebbene suo marito James (Morgan Spector) sembri sostenerla, Loretta si sente messa costantemente in discussione, oltre a sentirsi in colpa per le sue presunte mancanze.
In questo contesto complicato, tuttavia, la giornalista individua una pista che collega alcuni omicidi, caratterizzati da elementi comuni: le vittime sono tutte donne anziane, che vivono da sole e lasciano entrare in casa un uomo, che, probabilmente, si spaccia per un operaio. L’articolo di Loretta riscuote un buon successo, ma allo stesso tempo attira l’attenzione delle forze dell’ordine, decise, almeno all’inizio della vicenda, a negare che in città ci sia un serial killer; gli omicidi, però, si susseguono a stretto giro e il caso esplode: vista la sua scarsa esperienza, Loretta viene affiancata da Jean, che ha una conoscenza dell’ambiente tale da permetterle di ottenere delle informazioni di prima mano da poliziotti, coroner, fotografi.
Tra le due donne si instaura un rapporto schietto: con le loro indagini, Loretta e Jean individuano dei potenziali colpevoli e collaborano, in particolare, con il detective Conley (Alessandro Nivola); il caso, inoltre, si complica di omicidio in omicidio, perché il modus operandi dell’assassino si modifica, diventa stranamente incoerente, finché un presunto strangolatore, Albert DeSalvo (David Dastmalchian) non viene arrestato.
La soluzione del caso, tuttavia, è più complessa del previsto e il film ha il pregio di mantenere alta la tensione del racconto fino alla fine: Loretta e Jean, dapprima osteggiate, finiscono per venire usate, proprio in quanto donne, per raccontare una vicenda dai risvolti particolarmente morbosi, quindi vengono minacciate e, infine, quasi obbligate a lasciare un’inchiesta trasformatasi in una farsa. L’aspetto più terrificante della vicenda dello strangolatore di Boston è, in definitiva, proprio questo: l’assassino si trasforma in un mito, dietro cui nascondere interessi politici ed economici, in un fantoccio di comodo da utilizzare per nascondere l’odio verso le donne, sempre viste come un oggetto da utilizzare a proprio piacimento e di cui sbarazzarsi al momento opportuno.




La storia di emancipazione di Loretta McLaughlin e Jean Cole, del resto, è priva di retorica ed evidenzia senza sconti le difficoltà di due professioniste che lottano per affermarsi nel loro lavoro, così come le conseguenze che la battaglia intrapresa, fatta di piccoli atti di ribellione quotidiani allo status quo, ha sulla loro vita. Le giornaliste si muovono in un mondo maschile, fatto di privilegi consolidati e cameratismo difficile da scardinare; la città stessa è respingente nei confronti di Loretta e Jean: buia, incombente, dipinta di una palette di colori freddi, che vira dal grigio al blu scuro. La fotografia di Ben Kutchins e la scenografia di John P. Goldsmith contribuiscono con efficacia ad acuire il senso di claustrofobia e minaccia che incombe sulle protagoniste, per le strade della città, ma anche negli ambienti interni, negli appartamenti delle vittime e nelle stazioni di polizia, nella redazione del giornale e perfino nelle case, a cui Loretta e Jean tornano cariche di dubbi e sensi di colpa alla fine della loro giornata lavorativa.
Di certo il film si innesta in un ben nutrito filone investigativo; gli amanti del genere non potranno non cogliere, per esempio, le similitudini con “Zodiac”, pellicola di David Fincher dedicata al killer dello Zodiaco, ma il film di Ruskin propone una riflessione che va oltre i crimini commessi e la spasmodica ricerca del colpevole e racconta di una società che pare programmata per fare, delle donne, delle vittime predestinate, pur in contesti differenti: nel lavoro e in famiglia, per esempio. La storia vera di Loretta McLaughlin e Jean Cole dimostra quanto sia difficile e tuttavia possibile, per le donne, cambiare questo destino.