Sguardo felino (proprio come quello delle piccole gatte che cura amorevolmente) e atteggiamento misurato, ma è soprattutto per la sua voce che conosciamo Lorena Piras: possiamo infatti ascoltarla tutte le settimane in occasione della rubrica, dal titolo Nero d’Archivio, che conduce su Radio Venere. Si tratta di pillole noir capaci di riassumere, con poche ma funzionali pennellate, vicende cruente verificatesi nel circondario sassarese in particolare nel secolo a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento.
«Io non invento nulla nelle storie che racconto», tiene a precisare Lorena. «Si tratta sempre di vicende realmente accadute, spaccati di vita che oggi riempirebbero le pagine di cronaca nera.» E, tornando indietro con gli anni, ci racconta il perché del suo interesse verso questa materia. «Me ne sentivo attratta fin da bambina. Volevo scoprire come certe cose accadessero e perché. Le mie coetanee sognavano di diventare ballerine o simili mentre io volevo lavorare in quest’ambito che allora non sapevo neppure definire. Seguivo Telefono Giallo, il primo Chi l’ha visto? e Blu Notte; Lucarelli per me è un idolo indiscusso. Erano anni, però, in cui dalle nostre parti, per una ragazza, risultava difficile intraprendere studi mirati. Così ho seguito diversi percorsi, tra cui Scienze Politiche finché, nel 2017, ho conseguito un master in criminologia a Roma. E quella passione che non sapevo definire ha trovato un titolo, anche di studio.»
Dopo alcune esperienze sul campo – qui ricordiamo proprio quella maturata nella Capitale, presso il Centro Orientamento Lavoro (COL) Carceri – Lorena segue attualmente un gruppo di detenuti, nella Casa del Parco dell’Asinara a Porto Torres, ammessi al lavoro esterno secondo l’articolo 21 della legge 354/1975 sull’Ordinamento Penitenziario. «Con loro, insieme anche a un’archivista, ci occupiamo del recupero di tutto il materiale documentale custodito all’Asinara. È, tra l’altro, un lavoro che si ricongiunge all’argomento della mia tesi di master, proprio dedicata all’art. 21. Un lavoro che dà grandi soddisfazioni e ti mette a confronto con persone dal vissuto difficile ma pur sempre esseri umani, spesso dotati di un talento che andrebbe però incanalato nel modo giusto. Ma questo non è sempre facile da spiegare a chi si ha vicino.»
Sì, perché serve una certa forza a chi sceglie di fare della criminologia la sua professione. Una predisposizione al rapporto diretto con chi si è spinto oltre la legge molto diversa da ciò che può apparire se si considera questa figura specializzata così come appare nei salotti televisivi. «Intanto occorre distinguere tra criminologia, che si occupa dello studio del reo, e criminalistica, che consiste nello studio sul campo, sulla scena del crimine. Quella che vediamo in tv, più che criminologia è tuttologia e ciò crea molta confusione, generando e alimentando una morbosità eccessiva, al limite del voyerismo. C’è la tendenza a portare sempre più in basso il livello del discorso e a soffermarsi su aspetti del tutto inutili quando non addirittura vergognosi. Ma, del resto, è il meccanismo delle tre S che caratterizzano la cronaca nera, “sesso, sangue, soldi”, ad attrarre lo spettatore medio; forse perché viene portato a identificarsi con chi indaga o chissà, forse lo fa sentire al sicuro perché è toccata a qualcun altro e non a lui.»
Arriviamo, quindi, a Nero d’Archivio. Prendendo le mosse da alcune pubblicazioni in forma scritta, quella di trasferire gli argomenti dalla carta stampata all’etere si è rivelata una conseguenza inaspettata. Inizialmente pensato come format per la diretta, Lorena ha preferito optare per il registrato «sia per vincere l’ansia da microfono, sia per poter ulteriormente controllare il risultato finale prima della messa in onda.» Un filtro in più a garanzia del prodotto.
«Quando mi hanno proposto la rubrica, ho scelto di raccontare le storie così come le riportano i fascicoli sui quali conduco le ricerche, senza chiasso o sensazionalismi. Lo trovo più utile e funzionale al trasmettere un messaggio di prevenzione nei confronti di certe vicende. Nel corso delle puntate ci sono stati alcuni casi che ho trovato particolarmente significativi e che mi hanno colpito molto. Tra questi la storia di Francesca, uccisa a Rio Gabaru nel 1940 – giovanissima e da conoscenti – solo per rubarle dei soldi che neppure aveva con sé. L’autopsia ha rivelato che era incinta di pochi giorni. Non lo sapeva neppure lei. Un’altra vicenda molto forte è quella di signor Salvatore, ucciso a Sorso nel 1931. Ultrasettantenne e con problemi di vista, non essendo autosufficiente era stato accolto da una coppia che lo accudiva. Dopo avergli prosciugato tutti gli averi, però, è stato massacrato e gettato in un mondezzaio dell’epoca. Quando lo hanno trovato era ancora vivo e, prima di morire due giorni dopo, è riuscito a fare i nomi di chi lo aveva aggredito fugando ogni dubbio. Ricordo ancora un caso, quello di Caterina: uccisa nel 1920 nel centro storico di Sassari e abbandonata ai giardini. Quella volta è stata una parente della vittima a chiedermi di fare una ricerca, perché sentiva parlare in casa di questa storia quando era bambina. Ma i fascicoli dell’Archivio di Stato sono pieni di casi come questi e anche di più neri: tragedie dalle quali – pure dopo tanti anni e considerando il ripetersi sempre degli stessi eventi – non sembriamo aver imparato molto.»