Il tempo di mezzo tra l’estate e la stagione fredda è da sempre stato considerato importante per l’agricoltura e l’allevamento sin dall’antichità quando, con riti pagani, si ringraziava per il raccolto ottenuto e si pregava per una buona nuova semina. Era anche il periodo della macellazione delle bestie, le cui ossa venivano bruciate in roghi rituali, e i carboni si conservavano per funzioni protettive.
Per i Celti era lo Samhain, che si celebrava tra fine ottobre e inizio novembre e segnava il passaggio dal vecchio al nuovo anno, simboleggiando l’attimo in cui la stagione della nascita e del rigoglio della natura lasciava il posto a quello del letargo e della stasi. Ma era anche il momento in cui il giorno si faceva più corto e la notte più lunga assottigliava la linea teorica di separazione tra il regno dei vivi e quello dei morti sino ad aprire una porta attraverso cui passavano le anime. Seduti intorno al fuoco si onoravano gli antenati tramandando le loro gesta proprio in quella notte in cui si pensava che lo spirito dei defunti avesse l’opportunità di tornare ai luoghi della loro vita terrena.
Anche i Romani avevano una festa simile dedicata a Pomona, nella quale celebravano la fine della stagione del raccolto. Con la conquista e l’integrazione tra le due popolazioni, alla festa pagana fu affiancata la nuova ricorrenza cattolica dedicata a Tutti i Santi, All Hallows, che unito a -ene (vigilia) divenne nei secoli Halloween, vigilia di Ognissanti. Era un tentativo per ricondurre ad un significato religioso tutti i residui di paganesimo esistenti. La tradizione cristiana non riuscì però ad eliminare la credenza dei morti, così nel 835 Papa Gregorio Magno inserì, in quella stessa giornata, proprio la commemorazione dei defunti. Le assemblee degli anziani divennero riunioni familiari e i falò furono sostituiti dai lumini ad olio d’oliva, l’oro liquido delle campagne e prezioso dono per le anime, quale segnalazione di aiuto a ritrovare la strada di casa.
In Sardegna Ognissanti ha origini antichissime, anche in epoca nuragica, la morte non era considerata la fine della vita ma solo di quella conosciuta, morire segnava il passaggio verso un’esistenza spirituale simile a quella precedente terrena ma in una sorta di dimensione parallela. Tuttora si crede che sas animas bonas e sas animas malas, in egual modo, dimorino l’etere dopo il trapasso e vengono per questo onorate entrambe secondo antica tradizione.
Sono i giorni in cui le famiglie lasciano le città verso i paesi d’origine, in visita ai parenti con cui animano la festa in grandi tavolate che dopo il pasto rimangono apparecchiate per tutta la notte con i piatti fumanti di zuppe dai sapori dell’orto, cibo frugale ma dai profumi intensi, in modo che i defunti si possano nutrire della loro fragranza. Niente forchette né coltelli per evitare che sas animas malas possano ferire o uccidere qualcuno in uno scatto d’ira accidentale. Le case profumano di spezie e di frutta candita, nei giorni precedenti si preparano i dolci papassini con le mandorle e l’uva passa o le tilicche e il pane nero con la saba, il mosto cotto, scuro come la notte che cela i trapassati. Il pane di saba era l’antico omaggio che le famiglie benestanti donavano ai meno abbienti perché tutti pregassero per le anime della comunità, per questo noto anche come su pani ‘e s’anima.
Si accende la lantia, stoppino di stoffa imbevuto nell’olio e incastrato in un piccolo pezzo di sughero messo a galleggiare in una tazza d’acqua, una per ogni parente defunto. Restano accese sino alla mezzanotte del giorno dopo, proiettando figure inquietanti alle pareti delle camere. I bambini intagliano le arance per ricavare le lanterne da allineare sul caminetto o le latte da portare in giro per Is animeddas, Su mortu mortu o Su Prugadoriu, la questua per l’indulgenza delle anime, con nomi diversi a seconda della zona. Col viso sporco di carbone, i vestiti trasandati e qualcosa di bianco, a simboleggiare il vagare dei defunti, chiedono pro su ‘ene ‘e sas animas, un obolo per accorciare il loro tempo di permanenza nel Purgatorio.
Hanno delle vecchie federe o dei sacchi vuoti di farina che riempiono di castagne, noci, dolci fatti in casa, caramelle e cioccolati man mano che bussano ai vari portoni. Sono regali, in realtà, destinati ai defunti, si crede infatti che le anime utilizzino proprio i bambini per cibarsi dei dolci fatti loro in dono. Non c’è bisogno di insistere sul vecchio battacchio perché le vecchine sono già pronte sull’uscio con la corbula, un cestino pieno di ogni ben di Dio. Alcuni ricevono le fave secche, i legumi dei morti, retaggio dell’augurio di un buon raccolto, oppure mandarini e fichi secchi.
Nelle prime ore del mattino le madri fanno sparire le pietanze dalla tavola, prima del risveglio dei bambini che rimangono sempre stupiti del prodigio di quel pasto notturno. Poi ci si reca al camposanto e si celebrano le funzioni religiose al suono delle campane a morto. In genere per tutto il due novembre il loro rintocco riecheggia per i vicoli del paese contribuendo a rendere la giornata ancora più triste e cupa. La ricorrenza di Ognissanti in Sardegna si trasforma in magia.