Non esiste un aggettivo per descrivere Lili Murciano. Anche perché, se esistesse, lo conierebbe lei. E anche per lei non sarebbe facile trovare una parola per raccontare se stessa, quasi vent’anni e un metro e ottanta di scrittura, musica, pittura e vita allo stato grezzo. Non sarebbe facile perché non saprebbe se coniarlo in inglese, ungherese o italiano; non saprebbe se metterci dentro davvero tutto quello che ha passato, il mondo che ha girato, le cose che ha creato e che ha distrutto. Forse no. Le rivivrebbe tutte insieme e non sarebbe sicura di non farsi male. Ha un sorriso caldo, Lili, aiutato da due occhi color mare e da un carattere aperto, al nuovo, alla vita e alle mille idee che le vengono in una giornata. Al telefono tiene la voce bassa, perché in casa la famiglia riposa.
Buongiorno, Lili. Dove è adesso?
Sono in Ungheria, a Monor, una cittadina a un’ora da Budapest con una meravigliosa foresta dietro. È un posto magico, anche se fa tanto freddo. Ma quando nevica si crea un’atmosfera fatata, il paese si imbianca ed è davvero stupendo. Il lockdown l’ho passato fra la foresta e questa casa, passeggiando fra gli alberi e scrivendo in camera. Qui vivo insieme ai miei nonni: sono stata più con loro quest’anno che in tutta la mia vita.
Che meraviglia.
Sì, sono dolcissimi. Mi prendo cura di loro e cerco sempre di farli uscire il meno possibile, faccio io le commissioni e le spese. Qualche tempo fa, nonna mi ha preparato una torta perché mi vedeva un po’ giù, eppure, non le avevo detto nulla. Era buonissima. E io mi sono commossa.
Mi racconti cosa c’è dietro il suo nome, sono curioso.
Io mi chiamo Lili Virag Szuhay Murciano. Virag è il cognome di mia madre, in Ungheria è normale dare il cognome della madre a una figlia. Szuhay è il cognome di mio padre biologico di Budapest. Alle medie, per prendermi in giro, mi chiamavano Suzuki. Murciano invece è il nome del padre che mi ha cresciuto, italo-messicano: ha vissuto fra Città del Messico e Lecce.
Mezzo mondo, quindi.
Di sicuro tanta Ungheria e tanta Italia: ho vissuto a Budapest, Monor, Roma, Venezia e Otranto. E anche ad Alessandria d’Egitto.
Quante lingue parla?
Inglese, ungherese, spagnolo e italiano. Parlavo anche l’arabo ma, se non lo riprendi, come tutte le lingue, lo dimentichi. La lingua che suona meglio? L’ungherese. Se lo capisci.
In che lingua pensa?
Penso e ho sempre pensato in inglese. Però sogno in tutte le lingue, a seconda di chi sogno. E sogno parecchio. Tanti incubi.
In che lingua scrive?
Sempre in inglese: alle elementari aprivo il dizionario e scrivevo tutte le parole difficili che avevano suoni strani. Ho passato la mia adolescenza a leggere Percy Jackson e Hunger Games in lingua originale. Ho sempre frequentato scuole internazionali e americane. L’inglese mi è sempre piaciuto tantissimo ed è la lingua che ho fatto mia.
Che rapporto ha con la scrittura?
La scrittura è sfogo. Scrivo da quando avevo dieci anni e ho pubblicato dei racconti su qualche sito. Anche nella scrittura sono sempre stata più matura dell’età che avevo: scrivevo testi sulla guerra e sul dolore. Pensi che ho una raccolta di diari dove annotavo tutto quello che mi succedeva, dentro e fuori. Incollavo biglietti di teatro, foglie, sassolini, articoli del Gazzettino. Ho scritto un romanzo (è ancora nel cassetto e poi si vedrà) che riflette sulla mia generazione e sull’importanza della sanità mentale. Il protagonista, Kyrin, è affetto da disturbo bipolare. La sua prospettiva, il suo sguardo sul mondo mi affascina moltissimo.
Con la lettura?
Leggo tantissimo e di tutto, ho letto molti classici ma non tutti, ci sono sempre nuovi libri che diventeranno classici e classici che non ho ancora letto. Mi piace molto il thriller ma i miei libri preferiti hanno una base di fantascienza e di distopia. Tutte le persone vogliono capirsi, io volevo capirmi e capire le altre persone. Per questo leggo. Per poter perdonare. Anche il passato. Anche il dolore.
E con la musica?
Dal liceo, amore profondo. Prima avevo paura di cantare, la mia voce cambiava tantissimo e poi, un giorno, mia madre mi ha comprato un ukulele e una chitarra. E mi sono appassionata: componevo e prendevo lezioni di canto (tre, perché costavano troppo, poi ho proseguito online). E rileggevo i miei diari e scrivevo, sia spartiti che testi: per me in una canzone il testo è fondamentale. Ho composto tanto, ma Birth è la canzone che mi sta più a cuore. Racconta del fatto che mi sono successe tante cose nella vita e non sono mai stata pronta.
E magari dipinge pure.
Ogni tanto. Lavoro su tele grandi e su muro, uso tantissimo le tempere. Ma adoro fare arte digitale. Sono stata graphic artist di Lanx per tre anni.
Pittore preferito?
Pollock. Nello stile e nell’intento.
Che mi dice di Lili attrice?
A nove anni mi avevano chiamato per un provino. Era andato benissimo e mi sono iscritta subito in un’agenzia. Avrebbero dovuto girare un film che però alla fine non si è fatto. È passato un treno, sì, ma ero ancora in stazione. L’insegnante di recitazione mi aveva preparato benissimo e poi il regista Angelo Callipo mi ha aiutato moltissimo a scremarmi e capirmi come attrice. Mi sono iscritta in una piattaforma di casting e sono stata coinvolta in un progetto tedesco molto interessante che sta andando avanti e sono felicissima. In realtà ci sono tanti progetti, tantissimi, e tanti ruoli. Ma non posso dire altro!
E Lili fotomodella?
Avevo otto anni e mia madre voleva fare una foto album di famiglia: partì tutto da lì. Perché il fotografo, dopo qualche scatto, ha detto subito a me e ai miei che potevo avere un futuro. Da quelle foto è partita la mia avventura, anche grazie agli incoraggiamenti di Anita Pinter, che è un’amica di famiglia. Mi hanno fotografato in tanti. Ricordo due servizi su tutti: quello di Weronikka Dusznyszky a Roma, in stile fantasy. E i ritratti su Creative beauty fatti da Rich Heaton.
A questo punto, mi aspetto di tutto.
(ride) Pensi che, da piccola, mi mettevo maniacalmente a scrivere e disegnare, anche ore, anche di notte. Volevo creare e raccontare le cose come le vedevo io, esprimermi come volevo. Faccio di tutto anche oggi, creo pure degli orecchini a forma di ciambelle e di spaghetti.
C’è qualcosa che non sa fare?
I calcoli. Non riesco a concepire i numeri. Non ricordo mai bene nemmeno le tabelline! Della tabellina del nove ricordo solo che una colonna va su e un’altra va giù. Sempre sull’orlo della sufficienza sia in matematica che in fisica.
Di cosa ha paura?
Dell’abbandono. E di perdere il controllo.
Cosa la fa sorridere?
La felicità degli altri, i bambini che ridono, la pioggia d’estate.
Perchè piange?
Per tutto o quasi, sia gioia che paura. Sono sempre sopraffatta dalle emozioni.
Un libro, un film e un piatto.
Angelologia, di Danielle Trussoni. I film sono due: Il lato positivo di David O. Russell e Madre! di Darren Aronofsky. E sì, mangerei sempre i Tacos suaderos.
Lei sa cucinare?
Certo! Servono avocado, carne di maiale, piadine di mais, pomodoro, coriandolo, salsa piccante, insalata e cipolla.
Cosa studia?
Studio Philosophy, International and Economic Studies all’Università Ca Foscari di Venezia.
La domanda mi viene spontanea: cosa vuole fare da grande?
Farò Lili.
C’è un sogno che non ha ancora realizzato?
Andare in Finlandia.
Perchè?
Un giorno glielo racconterò.
Grazie, Lili.
Grazie a voi.