“Per gli storici, i principi e i generali sono dei geni […]”. L’assunto di Lev Tolstoj, padre della letteratura russa dell’Ottocento, ingloba all’interno di un preciso frame introspettivo la figura del principe. Un profilo autoritario, dall’estro incontenibile al quale vanno sommate una personalità di spicco e un animo nobile. Anche per la Cagliari dei primissimi anni ’90 i concetti di genio e principe vanno a braccetto. Ragionare di quest’ultimo concetto, al di fuori di un contesto dai tipici contorni fiabeschi, appare decisamente un ossimoro.
Un’equazione, quella tra il più classico dei generi letterari e i leader carismatici dall’encomiabile elevatezza morale, applicabile in molteplici ambiti. Anche il mondo dello sport – calcio in primis – ne assorbe la retorica intrinseca trasformando la favola in tangibile realtà. Nell’estate 1990 Cagliari sta alle fiabe come la figura del principe sta a Enzo Francescoli. Fuoriclasse uruguaiano di fama mondiale e stella dell’Olympique Marsiglia tritatutto di Papin, Waddle e del magnate Tapie, “El Principe” Francescoli (soprannome affibbiatogli dal giornalista connazionale Victor Hugo Morales) sbarca in Sardegna nello stupore generale.
Mentre Cagliari tiene a bada gli hooligans che invadono Via Roma e Piazza Yenne durante Italia ’90, il ristorante “Lo Scoglio” del quartiere Sant’Elia diventa il teatro dei sogni rossoblù: Tonino Orrù e Carmine Longo da una parte, Paco Casal – procuratore di Francescoli – dall’altra. Tra una fregola con le vongole e un Vermentino di qualità eccelsa, una stretta di mano tra le parti sancisce l’imponderabile: Enzo è il nuovo Principe rossoblù. Qualità a servizio dei palati fini, giocate d’alta scuola, fantasia al potere. Il Sant’Elia sogna: se la tecnica è sublime, lo spessore umano non è da meno.
L’approdo in Sardegna di Francescoli, accolto ad Elmas da una folla che il 7 luglio 1990 stenta a credere ai propri occhi, rientra nei canoni di umiltà dell’uomo che si antepone al calciatore professionista. Il calcio popolare lo affascina, lo intriga. Predilige la serenità della provincia alle estenuanti pressioni del grande calcio tanto da voltare le spalle all’avvocato Agnelli che avrebbe fatto carte false pur di vestirlo di bianconero. Cagliari è l’alter ego, come stile di vita e conformazione geografica, della sua amatissima Montevideo e dopo un iniziale periodo di appannamento dettato da una condizione fisica precaria, il Francescoli cagliaritano fiorisce in tutto il suo splendore nel 1991.
Dopo aver posto la sua encomiabile firma nel miracolo-salvezza nel primo anno in Serie A con Claudio Ranieri è il ciclone che, qualche mese più tardi, abbatte la Sampdoria campione d’Italia di Vujadin Boskov con un assolo da mani nei capelli. Ricevuto il pallone da fallo laterale, supera il malcapitato Moreno Mannini con un irrisorio tunnel per poi beffare Pagliuca con una pennellata sul secondo palo. L’esperienza del Principe a Cagliari assume tutti i contorni di un climax ascendente di prodigi che culminano con il doppio sigillo al “Delle Alpi” di Torino il 16 maggio 1993: manita rossoblù al Toro e qualificazione blindata per la Coppa Uefa.
Con l’Europa si chiude un ciclo e il principe saluta Cagliari, direzione Torino granata. Un addio a metà tra il sacro e il profano per il quale ci permettiamo di scomodare un altro big della letteratura made in URSS, Fedor Dostoevskij: “Vivere senza Dio è un rompicapo e un tormento. L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa. Se l’uomo rifiuta Dio, si inginocchia davanti ad un idolo”. Cagliari si è inginocchiata davanti al suo “Principe”. E non ha mai smesso di farlo.