It’s coming Rome! Il sogno azzurro è diventato realtà: l’Italia è campione d’Europa. Dopo il primo e unico (fino a ieri) trionfo di Roma del 1968 con la Jugoslavia, la cocente delusione di Rotterdam del 2000 con la Francia e la fragorosa sconfitta con la Spagna a Kiev nel 2012, la Nazionale si scrolla di dosso tutte le cocenti delusioni e paure degli ultimi anni portando a compimento un’altra, ennesima, storica impresa. Un trionfo destinato, come i precedenti, a cristallizzarsi nella memoria collettiva come uno dei più inattesi. Uno dei più emozionanti di sempre.
Stavolta non ci concentreremo sugli aspetti tattici, sulle chiavi di volta del watch di Wembley, sui dettagli in fase di possesso o di contenimento. Dopo un trionfo di tale portata sono le impareggiabili sensazioni e vibrazioni dell’anima a dominare la notte londinese, a nitide tinte tricolori. Lo abbiamo ripetuto in svariate occasioni e non ci stancheremo di ribadirlo con sicura convinzione: la forza del gruppo ha fatto, ancora una volta, la differenza. L’affetto reciproco e tangibile, il sentirsi parte di un progetto importante (che si parli di titolari o riserve non ci sono differenze) e l’evidente voglia degli Azzurri di stare insieme, di godersi ogni secondo gli uni con gli altri sono tutti elementi che abbattono e sovrastano il talento individuale e le fragili certezze altrui di un trionfo che avrebbe dovuto imboccare, secondo parte della critica (e non solo), i piovosi marciapiedi di Downing Street.
L’Italia campione d’Europa è gruppo sano e genuino formato da uomini di rilievo e interpreti di ormai consolidato imprinting internazionale. Una solidità e una qualità che permettono allo staff azzurro di guardare al futuro con sconfinato ottimismo: la struttura azzurra poggia sulle solide fondamenta di un estremo difensore, Donnarumma, cresciuto a dismisura negli ultimi anni e ormai pronto al grande salto anche nella squadra di club. Non che il Milan, per l’amor di Dio, non sia una società di enorme caratura (la storia parla chiaro) ma il Paris Saint-Germain potrà garantire a “Gigio” non solo un ingaggio monstre ma soprattutto la possibilità di competere per un altro titolo europeo ambito: la Champions League. Quell’ossessione per la coppa dalle grandi orecchie condivisa dal duo Bonucci-Chiellini, la saracinesca dell’Italia: la maledizione persistente di un trofeo continentale con la Juventus è stata definitivamente spazzata via dal trionfo con i colori azzurri. Sontuoso Giorgio, chirurgico Leonardo nel trasformare in gol la fortunosa occasione sotto porta.
Il centrocampo roccioso e di qualità rappresenta il perno del “rinascimento azzurro”: Nicolò Barella è il “Kanté” italiano per carattere, gamba e spirito di sacrificio, Jorginho la mente della squadra, Verratti l’equilibrista e il faro di una Selezione che può contare anche su un reparto offensivo di spessore con la definitiva consacrazione di Federico Chiesa, lo spirito di sacrificio di un attaccante che solo pochi mesi fa festeggiava la scarpa d’oro come Ciro Immobile al quale si associa l’estro, la fantasia al potere e l’arte del dribbling di lnsigne. Se l’Italia ha volato sui campi dell’Europeo itinerante lo deve però a uno staff tecnico di prim’ordine: decisivo il lavoro svolto nel dietro le quinte dagli assistenti allenatori – da Lombardo a De Rossi, passando per Evani fino a Salsano e l’ex portiere Nuciari – così come quello di Gabriele Oriali, definibile ormai più talismano che Team Manager. Dove c’è Oriali c’è il trionfo: chiedere ad Antonio Conte e all’Inter per maggiori dettagli.
Il successo è impresso anche in nomi non altisonanti, sconosciuti a più, ma dal peso specifico notevole: l’allenatore dei portieri, Massimo Battara, al quale va riconosciuto il merito di aver creato la giusta alchimia tra Donnarumma, Meret e Sirigu. Antonio Gagliardi e Simone Contan i preziosi match analysts azzurri: dalle loro banche dati e raccolta di minuziose statistiche i campioni d’Europa hanno sconfitto non solo gli avversari sul campo ma anche la cabala e i grandi numeri rispondendo colpo su colpo alle molteplici e variegate avversità. Meritano una standing ovation i nutrizionisti, medici, fisioterapisti e preparatori atletici fino ad arrivare ai secondi immediatamente successivi al rigore decisivo parato da Donnarumma. Uno spicchio di Wembley è in estasi mistica, il resto del maestoso impianto muore lentamente. L’attenzione dei più viene catturata da un abbraccio: quello tra Roberto Mancini e Gianluca Vialli.
In tanti anni di calcio siamo stati travolti dall’emozione per svariati episodi entrati in gamba tesa nella memoria collettiva ma l’affetto dei gemelli del gol, in uno stringersi fraterno sempre più forte, sempre più coinvolgente, ci ha illuminato gli occhi oltre a imporsi come immagine-simbolo, per eccellenza, di Euro 2020. L’abbiamo sentita tutti la forza di quell’abbraccio, il divampare di lacrime di smisurata e incontenibile felicità. Il 20 maggio 1992, in quello stesso stadio, i ragazzi terribili della Sampdoria perdevano all’ultimo respiro una Coppa dei Campioni il cui spettro aleggiava in ogni stadio in cui i ragazzi tutto genio e sregolatezza mettevano piede. Come se fosse un’ombra scomoda, di cui difficilmente riesci a liberarti. Ventinove anni dopo, nella stessa porta in cui Ronald Koeman demoliva i sogni blucerchiati, Donnarumma regala ai veri artefici del trionfo tricolore quel titolo inseguito, sognato, avverato. In quell’abbraccio ci siamo ritrovati tutti noi, testimoni di un’impresa senza tempo e ubriachi di felicità in giro per lo Stivale. Chiudiamo per un attimo gli occhi, non si tratta di feconda immaginazione: l’arco di Wembley è colorato di tricolore. Londra è tricolore. L’Europa è tricolore. Siamo tornati. Il calcio non ha imboccato la via di casa ma ha preferito deviare verso il suo habitat naturale, verso una passione che non conosce né confini, né tempo, né spazio: l’Italia. Il calcio, ieri sera, ha forse trovato la sua reale dimora.