Daliland: viaggio nella vita di Salvador Dalì tra genialità e decadenza

Il biopic ripercorre la carriera di uno tra i più significativi esponenti della scena culturale del Novecento, a partire dalla crisi personale e artistica degli anni ’70; nel cast Ben Kingsley e Barbara Sukowa

Ben Kingsley in “Daliland”. Photo courtesy of Magnolia Pictures

Ben Kingsley in “Daliland”. Photo courtesy of Magnolia Pictures

Un uomo, un artista da decifrare, come una terra da esplorare: la regista Mary Harron sceglie di raccontare così Salvador Dalì nel film “Daliland”, in uscita nelle sale italiane il 25 maggio. Il viaggio cinematografico comincia dalle propaggini più estreme di un territorio sorprendente, variopinto e a tratti dissestato, ovvero dagli ultimi anni dell’artista catalano, la cui esistenza, alla soglia dei 70 anni, sembra essere improntata alla sopravvivenza del “personaggio” Dalì, eclettico e irreverente protagonista della scena artistica mondiale.

È il 1973 e Salvador Dalì (Ben Kingsley) vive insieme a sua moglie Gala Éluard (Barbara Sukowa) all’Hotel St. Regis di New York; il tenore di vita della coppia è elevato, caratterizzato dai fin troppo consueti eccessi, ma sotto la patina di un’esistenza dedita a piaceri e frivolezze si nascondono i segni della crisi, nel rapporto tra i coniugi, così come nella carriera e nella salute dell’artista; Dalì è impegnato a preparare una nuova personale che celebri il suo genio, ma le condizioni psico-fisiche gli impongono di farsi affiancare da un assistente. È l’occasione perfetta per James (Christopher Briney), impiegato nella galleria d’arte in cui si terrà la mostra, di lavorare a stretto contatto con il suo mito e di muovere dunque i primi passi nel mondo dorato di cui ha sempre desiderato far parte.

Proprio attraverso lo sguardo di James, tuttavia, il pubblico scalfisce la patina glamour di una vita segnata dalle ossessioni, la paura della vecchiaia e della morte in particolare, e dalla vacuità di un ruolo, quello del geniale, bizzarro artista, interpretato a solo beneficio di una schiera di adepti adoranti; Dalì sta infatti vivendo un momento di fragilità estrema, aggravato dai sintomi del morbo di Parkinson e dalle continue vessazioni di Gala, che gli intima di dipingere, di produrre e firmare quelle opere -non importa quale sia il loro effettivo valore- che possano garantire il consueto, sfrenato stile di vita che caratterizza la coppia.

Se la premessa del biopic appare drammatica, la narrazione di Dalì che emerge dal film è solo in parte dolente; il giovane assistente James scosta il velo dell’ipocrisia, scopre l’uomo oltre il personaggio e, pur scontrandosi con una realtà dura deludente, è capace di ricostruire le fila di una vita straordinaria, in cui il giovane Salvador e la sua musa Gala, interpretati nei flashback da Ezra Miller e Avital Lvova, si rispettano e si amano a modo loro, ponendo le basi per la straordinaria carriera di un artista multiforme, destinato a lasciare il segno in discipline differenti, in primo luogo la pittura, quindi la scultura, la fotografia, e ancora il cinema, la pubblicità e il design.

Il genio di questa figura centrale nella cultura del Novecento, dunque, si coglie in pieno, dall’aderenza al dadaismo e alla corrente surrealista di Andrè Breton al definitivo distacco, causato non solo da motivi politici -si rimprovera a Dalì una deprecabile aderenza ai regimi di Destra alle soglie della Seconda Guerra Mondiale-, ma anche da un’interpretazione sempre individuale dei suoi principi; Dalì rifiuta di farsi imbrigliare da un sistema d’idee pur condiviso e ne propone una visione smaccatamente personale e, talvolta, apertamente scandalosa. La regista Mary Harron, esperta autrice di biopic quali “Ho sparato a Andy Warhol” e “La scandalosa vita di Bettie Page”, e lo sceneggiatore del film John C. Walsh offrono quindi una prospettiva originale attraverso cui raccontare l’artista, la cui personalità emerge quasi con prepotenza tra le pieghe della decadenza, grazie alla presenza destabilizzante e al contempo stimolante di James, stimato da Dalì per le sue capacità e ammirato da Gala per la sua prestanza fisica.

Tra gli aspetti più interessanti della pellicola, non a caso, vi è la scelta di tratteggiare, sempre con estrema eleganza, l’idea di sessualità fluida della coppia: Gala tradisce ripetutamente Dalì, che d’altra parte, durante i suoi leggendari festini, si circonda di meravigliose modelle: l’erotismo, che rappresenta un elemento costante nella sua visione artistica -si pensi al rapporto con Amanda Lear, interpretata nel film dalla modella transgender Andreja Pejic-, è tuttavia più un concetto da sublimare che non una pratica finalizzata al piacere fisico, vissuto con problematicità da Dalì a causa di un trauma infantile. Finzione e realtà, arte e vita sono mescolati in modo quasi inscindibile: si comprende così la scelta di tratteggiare l’esistenza dell’artista a partire da un momento di crisi, in cui le contraddizioni risultino più evidenti e tuttavia portatrici di significati e, in un certo qual modo, di verità.

A sostenere questa narrazione, oltre all’impeccabile interpretazione di Ben Kingsley e di Barbara Sukowa, si riscontra nel film una suggestiva evocazione del clima culturale degli anni ’70, su cui si innesta la tarda produzione di Dalì; la direzione artistica della pellicola è affidata a Carlotta Vanzi, già scenografa di serie quali “The Crown” e “Andor”, alla guida di un team di professionisti d’eccellenza, dai costumi alla fotografia, per arrivare alla colonna sonora, affidata al compositore Edmund Butt. In un ritratto sofisticato e conciso -il film dura un’ora e 45 minuti- Salvador Dalì si svela come in un sogno decadente: al pubblico l’arduo compito di interpretarlo o di perdersi in esso.

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