Nei cinque capitoli che scandiscono la trama de “Il potere del cane”, la regista neozelandese Jane Campion intesse con grande maestria la rete invisibile e al tempo stesso intricatissima che lega i protagonisti del film, tratto dal romanzo omonimo di Thomas Savage del 1967: i fratelli Phil e George Burbank, interpretati rispettivamente da Benedict Cumberbatch e Jesse Plemons, la vedova Rose Gordon, che ha il volto di Kirsten Dunst, e suo figlio Peter, il talentuoso Kodi Smit-McPhee, si svelano l’uno all’altro, così come al pubblico, inscenando un contrappunto dal ritmo crescente, in cui dialogano brutalità e dolcezza, perversione e amore.
Ben 11 anni dopo il suo ultimo lungometraggio, la Campion sceglie di raccontare una vicenda umana di rara intensità e struggente durezza che, pur essendo ambientata nel lontano 1925, offre interessanti e, sotto certi aspetti, sorprendenti punti di contatto con tematiche legate alla società moderna, quali bullismo, sessualità e condizione femminile; non stupisce, dunque, che il film, dopo aver collezionato il Leone d’Argento a Venezia e svariati Golden Globe, abbia conquistato ben 12 nomination all’Oscar 2022, tra cui spiccano miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore protagonista.
Nella pellicola, il west è ancora selvaggio, spoglio e polveroso, ma il mito della frontiera e dei cowboys è sbiadito; Phil Burbank sembra infatti rappresentare il peggio di un mondo in lento disfacimento, a cui è legato nel disperato, ossessivo ricordo del suo defunto mentore Bronco Henry, che gli ha insegnato il lavoro di mandriano. Nel ranch di famiglia, Phil, sgradevole nei modi e nell’aspetto, spadroneggia sul fin troppo mite fratello George, ma il rapporto tra i due è stretto, consolidato dall’abitudine per cui ancora condividono la stessa camera da letto, come da ragazzini. L’equilibrio tra Phil e George si rompe quando quest’ultimo sposa la vedova Rose Gordon, che prova con dolcezza a inserirsi nel nucleo familiare; a questo punto Phil comincia con la donna un gioco sottile e crudele, attuando nei suoi confronti atti di violenza psicologica di cui George non si rende conto. L’arrivo nel ranch di Peter, figlio di Rose che studia per diventare medico come suo padre, complica ulteriormente le dinamiche familiari: la figura eterea del ragazzo, che ha dei modi estremamente gentili e delicati, lo rende il bersaglio ideale dello scherno dei mandriani e, contemporaneamente, provoca e turba Phil.
La trama del film, delineata in queste poche righe, si dipana capitolo dopo capitolo, non tanto “in avanti”, quanto piuttosto “in profondità”: Jane Campion, sullo sfondo degli orizzonti senza fine del Montana, scava senza pietà oltre i confini interiori dei suoi protagonisti e, attraverso la scoperta delle loro pulsioni e delle loro fragilità, spinge in avanti la narrazione di un dramma in cui la potenza delle emozioni, amore e odio, perdono e vendetta, diventa il fattore determinante per l’epilogo, assolutamente non scontato, della storia.
Nello speciale Behind the scenes with Jane Campion, disponibile come il film su Netflix, la regista afferma di essere rimasta affascinata dal romanzo di Thomas Savage fin dalla prima lettura e di aver sviluppato una sorta di ossessione per la storia e per il personaggio di Phil Burbank: “Credo che sia uno dei più grandi personaggi della narrativa americana. Tutto ciò che ha fatto è nel passato, può amare solo nel passato. Amare nel presente (…) per lui è impossibile, quindi l’ho trovato commovente”; ancora la Campion sul romanzo: “È incredibilmente dettagliato, sentivo che chiunque lo avesse scritto aveva vissuto quest’esperienza. Thomas Savage l’ha vissuta a suo modo”. È sufficiente percorrere i momenti salienti della biografia dello scrittore per capire quanto la sua vita possa essere stata d’ispirazione al romanzo: Savage, classe 1915, ha vissuto in un ranch del Montana dopo il divorzio dei genitori, si è sposato e ha avuto dei figli, fino a che non ha trovato il coraggio di vivere apertamente la propria omosessualità. Nei suoi quarant’anni di carriera come scrittore ha raccontato la provincia americana, l’ipocrisia di una società chiusa e respingente nei confronti del “diverso”, ma le sue opere sono state riscoperte da pubblico e critica solo dopo le ristampe dei primi anni Duemila: non a caso la scrittrice Premio Pulitzer Annie Proulx ha dichiarato di essersi ispirata a “Il potere del cane” per il suo racconto “Gente del Wyoming” del 1997, da cui è stato tratto il pluripremiato film “I segreti di Brokeback Mountain” diretto da Ang Lee.
I personaggi creati da Thomas Savage nel 1967 sembrano nati per essere tratteggiati, oggi, dall’adattamento di una regista come la Campion, che per la prima volta in carriera si confronta con un protagonista maschile: “Non sono un uomo (…) mi sono chiesta cosa penserebbe Thomas Savage del fatto che io dirigo la sua storia (…) penso che lui fosse un uomo alquanto femminile in un mondo molto maschile e credo che ne sarebbe contento”; di certo il film, nel rigore stilistico che caratterizza la regia, inquadra con sensibilità moderna la complessità dei protagonisti, contraddittori e, talvolta, sfuggenti. La sgradevolezza di Phil, infatti, maschera una personalità brillante e un’intelligenza acuta, che il fratello George, pur gentile e decoroso nei modi, non possiede; l’aspetto delicato, “femminile”, di Peter non corrisponde necessariamente a debolezza e passività, così come la dolcezza di Rose non è priva di lati oscuri: il legame trasversale che si instaura tra queste personalità vulnerabili, tese tra desiderio e paura, rischia di essere fatale e ogni mezzo appare lecito per difendersi, per sopravvivere.
Così, in definitiva, si spiega il titolo del film, che richiama la Bibbia e, per la precisione, il Salmo 22:21, in cui l’uomo giusto, nella sofferenza, implora Dio affinché lo difenda dal male, strappando ciò che ha di più caro dal “potere”, dalle “fauci” del cane: questa preghiera, terribile e disperata, accompagna tutta la vicenda, così come la colonna sonora firmata da Jonny Greenwood, compositore e chitarrista dei Radiohead, conferisce un ritmo lento e opprimente al dipanarsi ineluttabile del destino nelle vite dei protagonisti.
Jane Campion torna a essere candidata all’Oscar per la regia dopo “Lezioni di piano” del 1993: quell’anno non vinse, ma si aggiudicò la Palma d’oro a Cannes, prima donna a ottenere il riconoscimento. Sembra incredibile, ma nella storia del Premio Oscar solo Kathryn Bigelow e Chloé Zhao hanno ricevuto la statuetta per la regia: Jane Campion riuscirà nell’impresa, con questo film cupo, che indaga le molteplici sfaccettature dell’identità maschile?