Sassari, 20 settembre 1986. Piazza d’Italia, il salotto cittadino, assume tutte le caratteristiche di un’inconfondibile “osmosi generazionale”: i più giovani fanno spola tra il monumento di Vittorio Emanuele II e il Kenny, il nuovo fast food all’americana che alimenta in città la cultura paninara. I più attempati commentano con coloriti e vivaci toni l’attualità: il secondo Governo Craxi, le prime crepe dell’URSS di Gorbaciov, le migliorie che il primo cittadino sassarese, Raimondo Rizzu, dovrà apportare alla città e, non ultima come ordine di importanza, la Torres.
La Serie C2 sta ormai stretta a una piazza esigente che si autoalimenta di passioni e ardori variegati. Da qualche anno però l’acquedotto non calamita, come dovrebbe, le attenzioni di pubblico, sponsor e istituzioni. Serve una scossa. Tra i motorini e le 127 sistemate a spina di pesce nei parcheggi di Piazza Castello, non sfugge agli occhi dei passanti la figura di un uomo che cammina ininterrottamente tra la sede della Brigata Sassari e Palazzo Ducale. Ha con sé un’immancabile ventiquattrore che trabocca di lavoro e voglia di rivalsa.
È Bruno Rubattu il deus ex machina della Torres targata anni ’80. Icona dell’edonismo sportivo di matrice sassarese, Rubattu è certamente il presidente più tifoso e più amato che la città turritana ricordi. “Zi vidimmu alla torrese” è il suo personale modo di congedarsi dai camerieri del Bar Grandi, non prima di aver consumato un buon caffè e l’immancabile brioche. Un carattere vulcanico, pronto a eruttare da un momento all’altro, ma dietro il quale si cela la grandezza, la semplicità e l’amore genuino di un uomo infatuato della sua Sassari e della sua Torres.
Presidente rossoblù dal 1980, Rubattu investe svariati milioni nel club fino all’autunno del 1986, quando consegna alla città la squadra più forte, più competitiva e soprattutto più amata che la Sassari calcistica ricordi. È la Torres della saracinesca Sergio Pinna tra i pali, dell’autorità difensiva di Angelo Del Favero, del moto perpetuo Walter Tolu, del cinismo sotto porta di Roberto Ennas e dell’immenso talento di Gianfranco Zola al servizio del collettivo. Direttore d’orchestra? Lamberto Leonardi, per Sassari semplicemente Bebo.
Cresce l’entusiasmo, crescono i risultati. Rubattu riporta a Sassari – dopo 15 anni – il figliol prodigo Mario Piga che lo ripaga a dovere: gol promozione in C1, al “Moccagatta” di Alessandria, il 7 giugno 1987. Un capolavoro per Rubattu che esterna tutta la sua gioia con una dichiarazione che passerà alla storia: “Avevo promesso la C1 a Sassari e alla provincia di Sassari. Ci sono riuscito e sono l’uomo più felice del mondo”.
La Torres di Rubattu è anche un corollario di mitologia applicata al calcio dinanzi alla quale non può non scappare un sorriso malinconico: l’esodo di Sassari ad Alessandria per la partita promozione (agenzie di viaggio e traghetti Tirrenia presi letteralmente d’assalto nella settimana che precede l’appuntamento decisivo), le imprese alcoliche di Pinuccio “La Cina” e il senegalese Nene «Gerard» Ndiaye Niang, meglio conosciuto a Sassari come “Gurgugnao”.
Simbolo folkloristico della Torres dell’epoca con il suo immancabile bonghetto, catalizza l’attenzione di città e tifoseria con un’indimenticabile intervista rilasciata alla Nuova Sardegna: “La Torres è una squadra di veri leoni e se permettete io di leoni me ne intendo”. Al tramonto degli anni ’80 torna anche il derby con il Cagliari: indelebile quello del 23 ottobre 1988 giocato a Sassari. La città si trasforma in un deserto. L’unica forma di vita umana è rappresentata proprio da Gurgugnao che si dirige all’Acquedotto percorrendo l’area adiacente la stazione ferroviaria di via XXV Aprile. Riconosciuto e apostrofato da un nutrito gruppo di tifosi del Cagliari, Gerard risponde con un’ironia da consumato sassarese: “Muddi, africani!”. La Torres di Rubattu è stata anche questo.