Nato a Sant’Angelo Lodigiano 32 anni fa, da 11 si è stabilito in Sardegna, per rincorrere e realizzare i propri sogni professionali, indossando la canotta della Dinamo Sassari e, da qualche anno, la fascia di capitano. Lui è Giacomo Devecchi, cestista professionista nato con la “palla a spicchi” nel sangue. Ha praticato il nuoto ed il tennis, ma il suo vero amore è sempre stato il basket e intorno ad esso ha costruito la sua vita, vedendolo anche come punto fisso per il suo futuro. “Gli sport di squadra si addicono di più al mio carattere – dice Jack – A me piace il gruppo, ti aiuta a crescere. Insegna tanto, il rispetto degli altri e delle regole, degli equilibri all’interno dello spogliatoio, saper stare nel gruppo”.
Diploma di geometra in mano, ma “ormai ricordo solo le tabelline” ed il corso di laurea in “Ingegneria logistica e dell’ambiente” abbandonato a malincuore perché inconciliabile con gli impegni cestistici. Persona di un’educazione, un’umiltà ed una disponibilità uniche, sempre col sorriso sul volto, non ha faticato ad entrare nel cuore dei sassaresi e dei sardi. Ed è diventato un po’ sardo anche lui.
Fin da piccino ha sempre respirato l’aria dei palasport, con lo zio Vittorio Gallinari (papà di Danilo, ora in NBA) che giocava da professionista. La scelta dello sport da praticare, dunque, è stata naturale, grazie anche ai centimetri, dalla sua parte già quando era piccolo. Ha iniziato in una piccola scuola basket di un paese vicino al suo, Borghetto Lodigiano, poi è andato a Lodi e nelle giovanili dell’Olimpia Milano, squadra per la quale simpatizzava, insieme a quelle in cui giocava lo zio, ormai alla fine della sua carriera di giocatore, come Livorno e Verona.
Sei sbarcato a Sassari nel 2006, in prestito da Montegranaro e così è stato per un paio di anni. Poi non sei più andato via. Qual è stata la primissima impressione che hai avuto di Sassari appena sei arrivato e cosa, poi, ti ha “rapito”?
Arrivavo da due belle annate a Montegranaro, dove la squadra era arrivata in Serie A, ma non avevo spazio e allora ho deciso di rimanere in Legadue e provare una nuova esperienza. Qua c’era un buon progetto, però avevo un contratto di prestito, quindi il pensiero era ovviamente quello di tornare alla casa madre, dopo una o due stagioni. Non è stato così, perché qui mi sono trovato veramente bene da subito. Le ambizioni della società diventavano sempre più serie, dunque ho scelto di restare e provare a vincere qualcosa con Sassari. Sono rimasto colpito da subito dalla società, che all’epoca non era quella attuale ma aveva già una bella impronta di serietà e dava garanzie e tranquillità per lavorare bene, cosa tutt’altro che scontata e facile da trovare. E poi la gente è fantastica. Sono nato in un paesino, poi ho vissuto una grande città come Milano quando ho fatto lì le giovanili, ma questa per me è la giusta dimensione.
Se rinascessi, faresti ancora il giocatore di basket? Qual è la cosa più bella del tuo lavoro e quale, invece, la cosa meno piacevole?
Rifarei senz’altro il giocatore di basket. È ciò che ho sempre sognato da bambino e che mi piace fare. Noi siamo dei privilegiati a 360°, ma è ovvio che si devono fare dei sacrifici, come in tutti i lavori. Io li ho sempre fatti, ma volentieri, con l’obiettivo di arrivare ad un certo livello. Ce l’ho fatta, mentre ci sono tanti che pur facendo tanti sacrifici purtroppo non riescono ad arrivare al livello a cui sono arrivato io. Ma credo che prima o poi si venga sempre ripagati. Io sono stato ripagato nella maniera migliore possibile, ho realizzato il mio sogno di giocare in Serie A e di vincere dei titoli.
Che ruolo ha lo sport nella crescita di un bambino e di un ragazzo?
È importantissimo e a me ha dato davvero tanto. Ho anche avuto la fortuna di giocare con compagni di diverse culture e modi di pensare, e questo mi ha arricchito molto.
Tra una partita e l’altra, un volo e l’altro, non hai tanto tempo libero… Quel poco che hai, come ti piace trascorrerlo?
Adoro viaggiare ed è una cosa che non mi pesa anche quando viaggiamo per le trasferte. Nel tempo libero mi piace studiare e organizzare i viaggi che poi farò in estate. Mi piace informarmi e conoscere bene le culture, scoprire cose un po’ particolari e non limitarmi a vedere una chiesa o un monumento. Quindi, spesso, sto lì a cercare itinerari, esperienze di altri viaggiatori. Ogni tanto leggo, letture leggere, perché non sono un grande amante dei libri, anche se mi piacciono quelli sportivi, che trattano di qualsiasi sport, soprattutto le autobiografie. Poi qualche serie televisiva e film”.
In questi anni, anche per gli impegni promozionali della squadra, hai avuto modo di girare la Sardegna. C’è un posto che ti ha colpito in modo particolare?
Sono tutti bellissimi. Vado molto volentieri a visitare luoghi nuovi ed incontrare gente qui in Sardegna. Ciò che mi ha colpito sempre tantissimo è l’attaccamento alla propria terra, l’orgoglio che ha il popolo sardo. Si avverte, si sente e non avevo mai visto una cosa del genere. E vogliono condividere questo orgoglio. Sono qui da tanti anni e sento che i sardi mi vedono come uno di loro. Questo mi fa immensamente piacere. Non dimenticherò mai il giorno che siamo tornati dopo la vittoria dello Scudetto: da Olbia a Sassari, ad ogni incrocio c’era qualcuno che ci salutava sventolando bandiere e sciarpe.
Il Devecchi giocatore concepisce un futuro lontano da Sassari?
Come giocatore no, questa maglia mi ha dato veramente tanto e me la sento addosso. Ma non penso di andare via da qui nemmeno una volta che appenderò le scarpe al chiodo. Mi trovo veramente bene, quest’isola mi ha proprio rapito. Poi non si sa mai cosa riserverà il futuro, quindi non si può escludere niente a priori, ma io spero di far parte del progetto Dinamo più a lungo possibile.
Pensi mai al tuo futuro e a quando smetterai di giocare? Cosa ti piacerebbe fare?
Ci ho sempre pensato ed ora che quel momento, via via, diventa più vicino, ci penso ancora di più. Mi piacerebbe rimanere nella pallacanestro e nel mondo Dinamo, attualmente una delle realtà più belle in Italia anche come organizzazione societaria. E sono convinto che si possa ancora crescere. Non ho tra le mie doti migliori la pazienza, per cui non farò mai l’arbitro o l’allenatore. Non fa per me, mi vedo più in un ruolo dirigenziale.