Stesso prezzo ma confezione più piccola o contenuto inferiore. Questo fenomeno ha un nome e si chiama “shrinkflation”. L’appellativo anglosassone è stato coniato fondendo insieme il verbo “to shrink”, restringere, e il termine “inflation”, inflazione. Con shrinkflation, infatti, si intende quella strategia a cui le multinazionali ricorrono da diversi anni per combattere i rincari e incrementare i margini di profitto alle spalle dei consumatori, attribuendo ad un prodotto inferiore per contenuto, peso o volume lo stesso prezzo che aveva in precedenza.
Nella maggior parte dei casi la riduzione non riguarda in modo diretto la dimensione del prodotto ma le unità di prodotto presenti all’interno della confezione. Ad esempio, il numero di patatine, di biscotti, salviette umidificate o assorbenti all’interno di un pacco. In altri casi, invece, è la stessa dimensione del prodotto a cambiare, come i grammi di cioccolato, la grandezza delle lattine delle bibite o il vasetto delle confetture. Spesso, inoltre, alla diminuzione della quantità allo stesso prezzo viene associata una confezione nuova o un rinnovamento visivo del marchio in modo da confondere il consumatore e trasformare l’articolo in qualcosa di più accattivante.
I casi di shrinkflation sono veramente tantissimi. Tra gli esempi più recenti segnalati da uno studio di Altroconsumo pubblicato il 5 ottobre di quest’anno ci sono le confezioni di Philadelphia light, passate da 200 a 190 grammi, il detersivo per piatti Nelsen, passato da 1 litro a 900 ml e i pacchetti di fazzoletti, il cui contenuto è calato da 10 a 9 fazzoletti. Ma anche i biscotti Krumiri Bistefani sono stati una delle vittime di tale trucco. Il prezzo è rimasto lo stesso ma la confezione è diventata più leggera, passando da 300 a 290 grammi. Quindi per acquistare la stessa confezione di biscotti ora si spende il 3,4% al chilo in più. Un altro caso descritto dall’associazione Altroconsumo è quello della confezione di Kinder Brioss. In origine il pacco pesava 280 grammi mentre adesso il peso si è ridotto di 0,10 grammi per merendina e il prezzo al chilo ha subito addirittura un rincaro.
Altri esempi sono quelli del cioccolato Milka, che è passato da 300 a 270 grammi, la Coca-Cola, con la bottiglia da 2 litri che è scesa a 1,75, e poi anche il Cornetto e il Magnum Algida e i Kellogg’s Coco Pops, tutti prodotti con una grammatura inferiore rispetto all’originale. Le aziende non sempre riconoscono i motivi che le hanno portate a ridurre le dimensioni dei propri articoli: la Kellogg’s, ad esempio, ha giustificato la modifica del peso dei Coco Pops con la riduzione dello zucchero presente nel prodotto, mentre l’Algida ha parlato della necessità di ritoccare al ribasso le chilocalorie dei gelati.
Ma il caso di studio di shrinkflation più emblematico e che ha fatto più scalpore negli anni scorsi è stato quello della Toblerone, la barretta di cioccolato prodotta da Kraft. Per far fronte all’aumento del costo del cacao, i produttori decisero di ridurre il numero di “gobbe” di cioccolato della barretta, allungando gli spazi tra l’uno e l’altro per risparmiare sulla materia prima. Quindi la barretta Toblerone passò nel 2010 da un peso di 200 grammi a 170 grammi e poi scese a 150 nel 2016, segnando un -25% di quantità rispetto all’originale. Anche la versione maxi da 400 grammi venne ridotta a 360 e la decisione scatenò la rabbia dei consumatori.
Ma come ci si può difendere da questo fenomeno sempre più frequente? Spesso l’abitudine porta i consumatori ad acquistare gli stessi articoli senza verificare se abbiano subito delle modifiche. Secondo Altroconsumo, quindi, la prima arma da utilizzare per difendersi dalla shrinkflation è proprio l’attenzione. L’associazione consiglia di esaminare il formato (peso o volume) del prodotto che si sta per acquistare e di controllare non solo il prezzo per confezione ma soprattutto quello al chilo o al litro, così da capire quanto si sta spendendo in proporzione alla quantità.
In Italia le associazioni dei consumatori si sono schierate contro questa operazione commerciale. All’inizio del mese di aprile Consumerismo No profit aveva segnalato il trucchetto delle aziende chiedendo che venissero fatti degli accertamenti per capire se la pratica trasgredisse alle norme del Codice del consumo. Nello stesso mese il Codacons aveva presentato un esposto all’Antitrust e a 104 Procure della Repubblica chiedendo di aprire delle indagini per verificare se il modo di operare da parte delle aziende rappresentasse una pratica commerciale scorretta. Di recente anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avviato un’istruttoria per capire se le strategie adottate dai produttori possano violare le norme e l’Antitrust si occuperà di accertare la trasparenza delle modifiche dei prodotti che, se non corredate da un’etichetta esplicativa, potranno essere soggette ad un approfondimento.