Saman Abbas, la ragazza diciottenne scomparsa da Novellara dopo essersi opposta all’imposizione del matrimonio da parte dei genitori e su cui i carabinieri indagano per omicidio, è l’ennesimo episodio di nozze forzate in Italia. Con lei Hina Saleem, uccisa a Brescia nel 2006. Shahnaz Begum, ammazzata in provincia di Modena nel 2010. Sana Cheema, nata in Italia ma assassinata in Pakistan nel 2018. Sono solo alcune delle ragazze “invisibili”. Storie di spose poco più che bambine, di diritti negati, di maltrattamenti e di brutalità. Storie di donne che hanno rifiutato l’imposizione del matrimonio e che sono diventate vittime. Vittime a tutti gli effetti anche di un sistema che non comprende in tempo la gravità della loro richiesta d’aiuto.
Davanti all’incapacità di tutelare la vita di ragazze che vivono nel nostro Paese e che vogliono trascorrere la propria esistenza senza imposizioni da parte di famiglie patriarcali e integraliste, è forte l’indignazione e il disappunto. Si tratta di giovani ragazze costrette a vivere una vita che non è quella che hanno scelto. Sui volti di Saman, Hina e le altre convergono una serie di questioni che difficilmente si riesce ad equilibrare, come il genere, la libertà di espressione, la tolleranza, l’ordine pubblico, la sicurezza e l’inefficacia dei presidi culturali. Quello che noi chiamiamo omicidio, o meglio femminicidio, per chi lo commette è invece una punizione necessaria nei confronti della famiglia lesa, per restituirle dignità e rispetto agli occhi della comunità. L’onore di una famiglia si ritiene compromesso, infatti, quando i suoi componenti non obbediscono al capofamiglia, dimostrando che egli manca dell’autorità necessaria per farsi rispettare. Per il decoro familiare si ritiene che i capifamiglia abbiano il dovere di vegliare sul comportamento dei congiunti, in particolare delle donne, e di punirle se lo ritengono giusto.
In situazioni di questo tipo non si può fare esclusivo riferimento ad un reato, ma è necessario parlare di violazione di un diritto di genere. La parità di genere non sarà tutelata fino a quando una Shahnaz Begum verrà uccisa a sassate a Novi dal marito per aver difeso la figlia Nosheen che si era opposta a un matrimonio forzato. E l’emancipazione femminile non sarà rispettata fino a quando una Hina Saleem verrà ammazzata dal padre e sepolta in giardino perché si è recata in un parco a bere una birra. La battaglia contro il patriarcato va combattuta per tutte quelle bambine, ragazze e donne che si trovano in circostanze di questo genere.
Dopo l’entrata in vigore della Convenzione di Istanbul, approvata dallo Stato italiano nel 2013, che permette l’intervento sociale e giudiziario, in Italia si è dovuto aspettare la legge sul Codice rosso nel 2019 perché la costrizione alle nozze diventasse un vero e proprio reato. Le regioni del nord rappresentano un terreno fertile per l’integrazione e l’accoglienza in virtù delle condizioni socioeconomiche e culturali più sviluppate. Accade quindi che le famiglie straniere si traferiscano in tali territori perché offrono loro maggiori possibilità lavorative. I figli, che spesso nascono in Italia, trovandosi all’interno di un contesto integrativo, avvertono di frequente l’esigenza di una “occidentalizzazione”. Sentono la necessità di allontanarsi da certe tradizioni nonostante i divieti e le minacce che tal volta ricevono e che rendono il percorso di integrazione difficoltoso.
Si stima che nel nostro Paese siano almeno un migliaio all’anno i matrimoni imposti all’interno delle comunità straniere che dimorano all’interno dei confini italiani. Purtroppo, quello di Saman non è un caso unico (anche se la maggioranza per fortuna non arriva ad essere di tale portata) sono tante le situazioni di violenza fisica, psicologica o di sottomissione che vengono segnalate ai tribunali. Secondo il rapporto sul Codice rosso, tra il 2019 e il 2020, sono stati 11 i casi di denuncia per costrizione al matrimonio in Italia. I servizi sociali spesso vengono allertati dai vicini di casa, dalle scuole, ma anche dalle ragazze stesse. Quando ciò accade le ragazze vengono identificate e affidate alle comunità. Questo non sempre funziona perché si fa sentire in loro il richiamo della famiglia, il terrore di non farcela da sole e la paura di criminalizzare i familiari. Come Saman, che aveva già avuto il coraggio di denunciare i genitori per le violenze ed era stata ospitata in una struttura di accoglienza, ma compiuta la maggiore età era tornata a casa.
Nonostante sia stato rilevato che negli ultimi anni contesti di questo genere stiano venendo allo scoperto sempre più in anticipo a causa dell’aumentata attenzione e conoscenza del fenomeno da parte dei centri antiviolenza e dei servizi sociali, la strada da fare è ancora molto lunga ed è appurato che sia necessaria la costituzione di un osservatorio per il monitoraggio di tali situazioni familiari e la nascita e diffusione di campagne istituzionali informative riguardo le condizioni di tali ragazze.
Una donna violata ha infatti il diritto di non restare “invisibile”. Ha il diritto di dire no, di non sposare chi le hanno scelto altre persone, di sposarsi a trenta, quaranta o cinquant’anni invece che a diciassette. Una donna ha il diritto di vivere in un altro modo sotto sua libera scelta. Perché un matrimonio forzato è sempre una violenza.