Un uomo afroamericano, disteso a terra a pancia in giù, ammanettato, con la testa rivolta a destra e il ginocchio di un poliziotto a pressare sul collo. Un agente indifferente sia alle sue suppliche che a quelle dei passanti, increduli davanti alla scena, che decidono di documentare l’accaduto con il cellulare. È la descrizione del video, diventato virale due anni fa, che ha sconvolto il mondo intero. Ma cosa era accaduto?
Il filmato ripercorre gli ultimi istanti di vita di un quarantaseienne di nome George Floyd accusato dai proprietari di un negozio di aver pagato con una banconota falsa. La polizia sosteneva che l’uomo si trovasse sotto effetto di droghe o alcool e che si fosse rifiutato di uscire dalla macchina. Ciò aveva spinto un agente a bloccarlo sull’asfalto, premendogli il ginocchio sul collo, senza fermarsi neanche davanti alla perdita dei sensi dell’uomo. Arrivata l’ambulanza finalmente il poliziotto si era spostato, ma per Floyd era ormai troppo tardi.
La sua morte a Minneapolis aveva suscitato indignazione e rabbia in tutto il mondo e dato vita a una lunga serie di manifestazioni. Migliaia le persone che dopo l’accaduto erano scese in piazza anche in Europa per dimostrare solidarietà agli afroamericani e per denunciare le brutalità della polizia nei loro confronti.
Avvenimenti di questo genere purtroppo non sono sporadici né negli Stati Uniti né in Europa. Negli USA, secondo alcuni studi, una persona nera (per lo più uomini e ragazzi) ogni 1.000 può aspettarsi di venir uccisa dalla polizia: 2,5 volte di più rispetto a un ragazzo o un uomo bianco. La violenza è molto più diffusa che negli altri Paesi anche a causa della cosiddetta “gun culture” (cultura delle armi) che spiega il motivo per il quale i possessori di armi siano così numerosi. L’uso legale della violenza negli Stati Uniti è permesso dalla “Stand your ground law”: norma che consente ad una persona armata di uccidere un presunto aggressore solo in base alla percezione di pericolo per la sua incolumità, quindi per difesa personale. Tale legge rende quindi difficile condannare gli agenti di polizia colpevoli di violenze o omicidio.
Anche in Europa il fenomeno non è da sottovalutare. Sono infatti molti i casi di ragazzi di africani feriti o uccisi dalla polizia in modi sospetti. Fece molto scalpore in Belgio il caso di Adil, diciannovenne di origini marocchine, investito da una volante dopo aver provato a scappare da un controllo durante il lockdown. O quello di Mehdi Bouda, travolto da un’auto della polizia dopo essere fuggito da un posto di blocco. Invece, nei Paesi Bassi va ricordato Mitch Henriquez, bloccato a terra da un poliziotto dopo una rissa iniziata ad un concerto, il ragazzo perse i sensi e pochi giorni dopo morì. In Francia, Adama Traoré morì mentre si trovava in custodia cautelare. Fu poi constatato che la morte era avvenuta per soffocamento e la notizia determinò una serie di manifestazioni di protesta.
Insieme ai casi sopracitati di “policy brutality”, ce ne sono altri che possono essere ricondotti al fenomeno del “racial profiling” (profilazione razziale). Si tratta di una pratica discriminatoria con cui le forze dell’ordine considerano sospetta una persona solo sulla base della propria razza, religione, etnia o nazionalità. Operano quindi su questi individui attività di controllo, sorveglianza o investigazione anche se non vi sono evidenze oggettive che la persona sia in qualche modo colpevole.
Alcune ricerche hanno dimostrato che il fenomeno del “racial profiling” è particolarmente diffuso tra le forze dell’ordine europee. In particolare, uno studio del 2009 del Centre National de la Recherche Scientifique e Open Society Justice Initiative, ha preso in analisi le operazioni di controllo della polizia a Parigi e ha evidenziato che le persone di origine africana venivano fermate per controlli sei volte di più rispetto alle altre. Gli arabi, invece, addirittura otto volte più spesso.
Secondo il report “Being Black in the EU 2019” dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali, un intervistato su quattro (24%) delle persone di origine africana residenti nei Paesi UE ha affermato di essere stato fermato dalla polizia. Ma il dato ancora più allarmante è che, tra coloro che son stati fermati nei 12 mesi precedenti l’indagine, il 44% pensa che il fermo sia stato dettato da motivi razziali e il 16% ha sostenuto di essere stato trattato dalla polizia senza rispetto. Sul report si legge anche che la profilazione razziale ha delle ripercussioni sul senso di fiducia nei confronti delle forze dell’ordine da parte delle minoranze etniche, che risulta essere solo di 6,3 su una scala da 0 a 10 (in Austria è stato addirittura rilevato un livello di fiducia pari a 3,6).