Il 14 febbraio, in buona parte del mondo, viene celebrata la ricorrenza di San Valentino, meglio conosciuta come la festa degli innamorati. Si tratta di un’occasione in cui molte coppie, non solo possono festeggiare e scambiarsi regali e dolci pensieri, ma anche ricordare con gioia quei primi momenti attraverso i quali ha avuto inizio il loro viaggio di vita insieme.
E se l’amore ai tempi di internet e dei social network è caratterizzato da nuove modalità, spesso virtuali, di conoscenza e di corteggiamento, tanto da far ormai apparire superate quelle usanze romantiche che prevedevano l’invio di lettere, fiori e inviti a cena, basta spostare le lancette ancora più indietro nel tempo per scoprire come anche queste pratiche, di moda qualche decennio fa, avevano preso a loro volta il posto di altre tradizioni molto sentite e che richiedevano una certa dose di segretezza e tanto impegno affinché tutto andasse per il verso giusto.
In Sardegna, ai tempi dei nostri nonni, l’amoreggiamento era chiamato “su fastigiu”, termine che racchiudeva tutta una serie di riti che si protraevano per un tempo abbastanza lungo e che potevano far sfociare un sentimento ancora non dichiarato in una promessa di matrimonio.
Tanti erano i modi con cui un giovane poteva manifestare, con tenacia, un interesse e un affetto sincero nei confronti di una ragazza. Era consuetudine, infatti, che andasse spesso sotto casa della fanciulla per restare ad ammirarla a lungo qualora lei si trovasse affacciata al balcone, così come poteva capitare di frequente che i due si incontrassero alle fontane in cui ci si recava per fare approvvigionamento di acqua o all’uscita dalla chiesa in occasione della messa domenicale.
Questi primi segnali di interesse, fatti di sguardi, sorrisi e piccoli gesti, nonostante la cripticità, non passavano certamente inosservati agli occhi indiscreti degli abitanti del paese, che erano soliti commentare con la frase “funti fastigiendi”.
Il corteggiamento passava così alla fase successiva, “sa musicada”. Il pretendente era solito dedicare all’amata, in quattro diversi momenti della giornata, delle vere e proprie serenate d’amore. La prima era “su svelliamentu”, la canzone con cui il corteggiatore garantiva alla ragazza del cuore un dolce risveglio prima di iniziare poi ad adularla con “su mutetu de elogiu” (la canzone dell’elogio). Nel corso della giornata arrivava anche il momento de “su decraramentu”, melodia con cui il giovane, o addirittura i suoi amici, facevano sapere alla corteggiata il nome dello spasimante. Al calar del sole si giungeva, infine, a “sa dispidida” – la canzone della buonanotte -, che racchiudeva la promessa di rivedersi il giorno seguente.
Nel caso in cui i tentativi di conquista dell’amata non fossero andati a buon fine, la musica poteva diventare, tuttavia, uno strumento di vendetta da parte del ragazzo respinto. Si racconta, infatti, che cercasse di “cantai de malas”, ossia di rendere pubblici, a suon di musica, i peccati di lei con l’intento di rovinarne la reputazione, spesso con l’ausilio addirittura di un’orchestra e di un pubblico silenzioso. Ma pare che qualche innamorato deluso arrivasse anche a commettere azioni peggiori, spingendosi fino a “gettai sa tinta”, cioè a imbrattare di inchiostro la porta o l’intera facciata della casa della donzella rea di avergli spezzato il cuore.
C’è da dire che, anche nel caso in cui la corteggiata ricambiasse l’interesse del suo ammiratore, non poteva rischiare di mostrarsi troppo interessata e contenta per tutte le attenzioni che le venivano rivolte per non incorrere nel rischio di essere considerata poco seria dalla comunità. Il contegno nell’esprimere i suoi sentimenti, dunque, non doveva mai venire meno.
La fase successiva de su fastigiu era quella della vera e propria dichiarazione dello spasimante, la quale doveva però passare attraverso l’approvazione della famiglia di lei.
Ecco allora che nel corteggiamento faceva il suo ingresso una terza figura chiamata “su paralimpu”, generalmente un uomo, esperto e di fiducia, talvolta addirittura il parroco del paese, che si recava dalla famiglia della futura sposa per portare “sa pregunta”, la domanda di fidanzamento da parte dell’aspirante consorte. Durante lo svolgimento di questo rituale – che corrisponde alla versione sarda della più universalmente conosciuta richiesta della mano della sposa al padre -, questa sorta di messaggero veniva fatto accomodare in cucina, in una sedia disposta per l’occasione, tanto da essere soprannominata “sa cadira de su paralimpu”. Generalmente veniva scelta la seggiola più vecchia e sgangherata perché da questa dipendeva l’esito della richiesta. Se durante la conversazione con la famiglia della corteggiata su paralimpu si fosse infatti agitato troppo e, di conseguenza, fosse caduto da quella sedia malconcia, questo accadimento sarebbe stato interpretato come un cattivo presagio per le future nozze, determinando l’esito negativo di quella visita. Al contrario, quando tutto filava per il verso giusto, i parenti della fanciulla davano il proprio consenso.
Arrivati a questo punto, veniva fissato un incontro tra le famiglie dei due innamorati in modo da poter stabilire la data del matrimonio e parlare delle proprietà ed eredità dei futuri coniugi. Una volta raggiunto l’accordo, avveniva “sa intrada in domu”, momento in cui il giovane aveva l’onore di entrare a casa della ragazza per essere presentato ai genitori di lei. Ecco che allora si celebrava il fidanzamento ufficiale, con il tenace pretendente che donava alla sua futura moglie un anello o una spilla come pegno d’amore eterno.