“Ariaferma”: il tempo sospeso della vita in carcere, tra colpa e redenzione

Il film di Leonardo Di Costanzo, girato nell’ex carcere di San Sebastiano di Sassari, racconta un’intensa storia di umanità ritrovata, che travalica pregiudizi e ruoli imposti dalla società

Silvio Orlando e Toni Servillo in “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo

Si gioca sui dualismi in “Ariaferma”, il film di Leonardo Di Costanzo presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, disponibile ora su Sky Cinema e Amazon Prime.

Luce e buio, pieno e vuoto, guardie e detenuti: gli opposti si scontrano, dialogano e quasi si mescolano nella dimensione sospesa dell’immaginario carcere di Mortana, che incombe sul futuro dei protagonisti e sul cambiamento sperato e insieme temuto che si apprestano ad affrontare.

L’edificio, mastodontico e decadente, si trova in una valle isolata, tra boschi rigogliosi e aspri rilievi modellati dal vento, che immediatamente rimandano al Supramonte nel cuore della Sardegna; la natura lussureggiante pare soffocare la struttura e una nebbia densissima si allunga dalle cime dei monti sulle sue mura, quasi a volerla celare alla vista per sempre, anticipando la fine a cui è destinata. Il carcere, infatti, è in procinto di essere dismesso, ma un intoppo burocratico trattiene 12 detenuti a Mortana, in attesa della nuova destinazione; a sorvegliarli una manciata di agenti della polizia penitenziaria sotto il comando di Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), deciso a mantenere l’ordine pur nelle condizioni straordinarie in cui si dovrà svolgere il lavoro.

I 12 detenuti vengono trasferiti nel plesso centrale del carcere: la struttura del panopticon, ideata nel 18° secolo dal giurista Jeremy Bentham al fine di consentire a un unico sorvegliante di avere la visuale di tutte le celle, prevede infatti un corpo circolare dotato di torre e cinque bracci che si allungano da esso. Nella rotonda, dunque, si concentra la vita, mentre il resto dell’edificio si svuota e pian piano muore: l’ex casa circondariale di Sassari chiusa nel 2013 si mostra in tutta la sua terribile grandezza, San Sebastiano infatti evoca storie di sofferenze e abusi che la cronaca ha raccontato (in particolare, il vergognoso pestaggio dei detenuti nel 2000 e l’omicidio del detenuto Marco Erittu nel 2007) e che il tempo non ha cancellato.

Nel film, la fotografia di Luca Bigazzi restituisce il senso della memoria proprio attraverso il vuoto, la luce fredda che attraversa le sbarre e riecheggia nei lunghissimi corridoi, tutti collegati al cuore di Mortana; qui, col passare dei giorni, la tensione tra i detenuti si acuisce, aggravata dalla chiusura della cucina, per cui in carcere arrivano pasti precotti di qualità scadente, e dall’interruzione temporanea delle visite, che difficilmente potrebbero essere gestite dal personale ridotto. A farsi portavoce della protesta è il camorrista Carmine Lagioia (Silvio Orlando), che gode del rispetto dei compagni e ottiene da Gargiulo il permesso di riaprire la cucina e preparare i pasti, sotto la sua stretta sorveglianza; questa concessione schiude una breccia tra guardie e carcerati: i personaggi di Toni Servillo e Silvio Orlando si provocano, si affrontano e si avvicinano, entrambi coinvolti dalla vicenda del giovanissimo Fantaccini (Pietro Giuliano), detenuto in attesa di conoscere la propria sorte giudiziaria.

I tempi del trasferimento si allungano, perfino gli agenti della polizia penitenziaria mangiano il cibo cucinato dal camorrista Lagioia, ma tra i colleghi di Gargiulo non manca chi si sforza di mantenere le distanze: mentre Coletti (Fabrizio Ferracane) critica le concessioni al regolamento, Sanna (Leonardo Capuano, interprete di Macbettu nello spettacolo di Alessandro Serra vincitore del Premio Ubu nel 2017) si mostra più incline all’ascolto e alla comprensione. Se all’inizio del film i 12 detenuti (numero altamente simbolico, che non a caso richiama il Vangelo) quasi si confondono nell’abisso carcerario, progressivamente emergono dal fondo e si umanizzano, con le loro storie, le loro ossessioni, i loro peccati: il tempo sospeso, in cui si attende che “qualcosa” accada, quasi illudendosi che la svolta sia vicina, pur riconducendosi alla dimensione narrativa straniante de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, rappresenta anche un’occasione per ritrovare la propria umanità, abbandonare la maschera, nel senso “pirandelliano” del termine, e riconsiderare atteggiamenti e azioni condizionate dal ruolo che si interpreta, come per le guardie, così per i detenuti.

Al culmine del film arriva il buio ad annullare, quasi definitivamente, distanze e differenze: un improvviso blackout fa precipitare Mortana nell’oscurità, “Siamo sepolti vivi” dice un detenuto, e invece il cuore del carcere si trasforma in luce pulsante, in condivisione, nel momento forse più suggestivo e commovente della storia; sono pochi, preziosi minuti non privi di asprezze, che preludono all’ultimo scambio tra Gargiulo e Lagioia, nell’orto dell’istituto penitenziario ormai in stato d’abbandono. Il dialogo è breve, nella sua semplicità appartiene quasi alla quotidianità, alla storia di due esseri umani “qualunque”, e in questo risiede la sua bellezza velata di amarezza e, forse, rimpianto.

A impreziosire il film, l’evocativa colonna sonora firmata da Pasquale Scialò accompagna efficacemente lo svolgersi della trama, in particolare il suggestivo crescendo di percussioni che regala dinamismo ad alcuni momenti della narrazione; la scelta di Clapping Music di Steve Reich risulta straordinariamente azzeccata, così come gli arrangiamenti dei brani folk greci Si trihas to yefyri e Na’man pouli, che nelle prime strofe recita “Vorrei essere un uccello/ e essere capace di volare via”.

Non manca la durezza, in questo film, non manca l’insensatezza di una realtà inumana, a cui ci si può solo adeguare, stritolati da un meccanismo crudele; non manca, tuttavia, neppure la scintilla capace di riaccendere, quasi magicamente, comprensione e condivisione: il tempo sospeso si anima, allora, con il ritmo di un battito di mani e nel suo scorrere si può davvero “volare via”.

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