Dopo essere uscito negli Stati Uniti il 21 luglio in contemporanea con “Barbie” di Greta Gerwig e aver così contribuito al fenomeno mediatico, a tratti esilarante, del “Barbenheimer”, “Oppenheimer” di Christopher Nolan arriva nelle sale italiane a partire dal 23 agosto, avendo già incassato oltre 600 milioni di dollari in tutto il mondo e attestandosi come il film ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale più visto nella storia del cinema.
Il dodicesimo lungometraggio di Nolan è tratto dalla biografia “American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer” di Kai Bird e Martin J. Sherwin, dedicata al geniale fisico considerato il padre della bomba atomica; con la stessa accuratezza documentaria di quest’opera monumentale, vincitrice nel 2006 del Premio Pulitzer, il film di Nolan traccia un ritratto dettagliato e a tratti impietoso di J. Robert Oppenheimer, interpretato da Cillian Murphy.
Tre ore per raccontare tre momenti fondamentali: la ricerca scientifica, con una fase creativa carica di speranza e frustrazione; la deflagrazione della bomba -il Trinity Test del 16 luglio 1945- quasi ubriacante per il successo ottenuto, ma gravata da un presentimento ineluttabile; infine, le conseguenze dell’epocale scoperta, sulla coscienza dell’uomo che ne è fautore e sull’umanità tutta.
Il tempo, com’è nella cifra stilistica del regista, gioca un ruolo fondamentale: non sempre lineare, scandito da precise scelte cromatiche che ne segnano il ritmo, è inteso sia come doloroso percorso intimo di un uomo, che deve confrontarsi con una cruciale questione morale, sia come “storia universale”, in cui una cesura insanabile trasforma Prometeo, colui che ha donato il fuoco all’umanità, in “Morte, distruttore di mondi”, come dirà lo stesso Oppenheimer.
Il film si avvale di un cast eccezionale, con Emily Blunt e Florence Pugh, rispettivamente Kathrine Oppenheimer e Jean Tatlock, donne amate dal protagonista, Matt Damon nel ruolo di Leslie Groves, responsabile militare del Progetto Manhattan, e Robert Downey Jr. in quello di Lewis Strauss, membro della Commissione per l’Energia Atomica degli Stati Uniti; la pellicola, inoltre, esce in Italia nella stessa data in cui viene distribuito per la prima volta nelle sale del nostro paese il lungometraggio d’esordio di Nolan, “Following” (1998), in una versione restaurata approvata dal regista.
Si racconta la vicenda di Bill (Jeremy Theobald), aspirante scrittore preda di una costante crisi creativa che comincia a seguire gli sconosciuti incrociati per strada al fine di appropriarsi delle loro storie; quando Cobb (Alex Haw), un elegante ladro specializzato nello svaligiare appartamenti, si accorge di essere pedinato, Bill viene coinvolto nella sua pericolosa, eccitante esistenza, trovandosi a camminare al confine tra due vite.
Girato in assoluta economia, questo sofisticato thriller in bianco e nero contiene molti elementi destinati a ricorrere nelle pellicole del regista; l’architettura del racconto, tesa a instillare il dubbio attraverso l’incrocio e la sovrapposizione delle linee narrative, e il montaggio, che come un meccanismo a orologeria contribuisce ad accrescere la tensione fino allo svelamento finale, peraltro non sempre risolutivo, rappresentano infatti alcune tra le più significative costanti della filmografia di Nolan, indipendentemente dal genere: il tempo, si potrebbe azzardare, è il vero protagonista delle pellicole, declinato nelle vite dei personaggi in maniera più o meno esplicita.
Da “Memento” (2000), in cui il protagonista soffre di amnesia anterograda (non riesce a immagazzinare nuove informazioni se non pochi minuti per volta, ritrovandosi senza memoria degli avvenimenti più recenti) a “Tenet” (2020), dove l’entropia invertita consente ai personaggi principali di muoversi all’indietro nel tempo, passando per “Interstellar” (2014), che tratteggia la Terra del 2067, gravata da una carestia mondiale che costringe l’umanità a trovare al più presto una nuovo pianeta abitabile, le dimensioni di passato, presente e futuro si mescolano, suggerendo implicazioni imprevedibili e affascinanti, insieme a nuove prospettive attraverso cui interpretare la realtà.
Non stupisce, dunque, che per Nolan il successo planetario sia arrivato grazie alla narrazione innovativa di un eroe ombroso, la cui vita è condizionata da un evento del passato -l’assassinio dei genitori-, trasformatosi in ossessione: con “Batman Begins” (2005) il regista inaugura una trilogia (a seguire “Il Cavaliere Oscuro” nel 2008 e “Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno” nel 2012) destinata a cambiare per sempre la percezione e la trasposizione dei fumetti al cinema; Nolan, affiancato nella sceneggiatura da David S. Goyer, si ispira alla trilogia di graphic novel di Frank Miller dedicate a Batman[1], un’opera epocale e rivoluzionaria, non solo per la narrazione del protagonista, delineato con spessore psicologico soprattutto nella momento della caduta, ma in generale per il linguaggio del fumetto.
Spesso, Christopher Nolan è stato accusato di “giocare” con gli spettatori, di costruire meccanismi cervellotici per il solo gusto di inseguire la complessità; sono celebri gli intricati schemi che tentano di sintetizzare le sceneggiature di “Memento” e “Tenet” e ancora oggi, non a caso, ci si domanda quale sia il significato della scena finale di “Inception” (2010), tra le pellicole più apprezzate del regista: forse, il fascino dei suoi film consiste proprio nel dubbio che instillano, nella scintilla che spinge all’approfondimento e alla costruzione di un significato che non sia univoco.
[1] Batman. The Dark Knight Returns (Il ritorno del Cavaliere Oscuro, 1986); Batman. Year One (Batman. Anno Uno, 1987) e Batman. The Dark Knight Strikes Again (Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora, 2001-2002).