“Ciao, mi chiamo Enea. Sono nato in ospedale perché la mia mamma voleva essere sicura che fosse tutto ok e stare insieme il più possibile”.
Queste sono alcune frasi della toccante lettera che accompagnava un neonato di circa una settimana affidato dalla sua mamma, il giorno di Pasqua, alla Culla per la Vita della Clinica Mangiagalli di Milano.
La vicenda del piccolo Enea, ora già a casa di una amorevole famiglia adottiva, ha riportato alla ribalta nazionale il dibattito sull’utilità di queste strutture e sulle difficoltà che si celano dietro a simili scelte.
Nata su iniziativa del Movimento per la Vita Italiano nel 1992, diffusa in varie regioni italiane dal 1995 e situata generalmente nelle vicinanze di ospedali o istituti religiosi, la “Culla per la Vita”, o culla termica, è una struttura che consente alle madri in difficoltà di affidare il proprio bimbo all’interno di un ambiente protetto e nella più totale privacy. Questa culla, riscaldata e dotata di sensori hi-tech che da subito monitorano temperatura, battito cardiaco e respirazione del bambino, si trova dietro ad una saracinesca automatica che si attiva e si chiude una volta premuto un apposito pulsante. Un allarme avvisa il personale che sorveglia la culla in modo che si possa prendere subito cura del piccolo. I genitori hanno dieci giorni di tempo per cambiare idea, trascorsi i quali, se il bimbo non viene riconosciuto, viene inviata una comunicazione al Tribunale per i minorenni che ne dichiara lo stato di adottabilità.
Ma la Culla per la Vita altro non è che la versione moderna della ben più antica “Ruota degli Esposti”. Istituita in epoca medievale, in Francia nel 1188 e in Italia nel 1198 – si racconta per volontà di Papa Innocenzo III turbato dalla visione ricorrente, in sogno, di cadaveri di neonati che venivano ripescati nel Tevere -, la Ruota degli Esposti rimase in auge sino al Fascismo. Si trovava nei pressi di chiese, conventi o ospedali e consisteva in una bussola di legno, girevole e di forma cilindrica, collocata sul fronte strada dell’edificio e divisa in due parti. Una parte era rivolta verso l’esterno mentre l’altra verso l’interno. Questo sistema consentiva, a chi volesse, di mettere in modo anonimo un neonato all’interno della bussola, facendola poi girare in modo che il bambino si ritrovasse subito all’interno. Quando la ruota girava, suonava una campanella e la persona addetta all’accettazione apriva lo sportello per accogliere il bambino e fornirgli le cure necessarie.
Anche Cagliari ebbe la sua Ruota degli Esposti. Nello storico quartiere della Marina, al posto di quella che oggi è Via Giuseppe Manno, strada simbolo dello shopping cittadino, tanto tempo fa c’era un piccolo sentiero che costeggiava la collina che portava al quartiere di Castello e sul quale già allora si affacciava la chiesa monumentale di Sant’Antonio Abate con l’annesso Convento, unito alla prima da un portico ancora esistente e che oggi collega Via Manno a Piazza San Sepolcro.
Nel 1400 quel Convento fu trasformato nella prima struttura ospedaliera di Cagliari, l’Ospedale di Sant’Antonio di Vienne (hospital Sant’Antoni), dal nome dell’ordine dei cavalieri a cui apparteneva il complesso conventuale. Accanto all’ingresso dell’ospedale era presente una Ruota degli Esposti. Lì vennero abbandonati migliaia di bambini, chiamati all’epoca della dominazione spagnola “borts” se maschietti e “bordetas” se femminucce, che dopo il 1534 furono vittime di una delle pagine più buie e raccapriccianti della storia della Cagliari medievale.
Da quel momento, infatti, non riuscendo più a far fronte al mantenimento di tutti i bimbi abbandonati, la struttura fu gestita dal Comune, che decise di risolvere il problema affidando gli esposti a famiglie che, in cambio, ricevevano una retta annuale per le spese. Tuttavia, diversi nuclei familiari privi di scrupoli, poco dopo si sbarazzavano di quei neonati dichiarando però la morte dei propri figli naturali, in modo da continuare a percepire la retta dall’ospedale. Scoperto l’inganno, il Comune pensò allora di rendere riconoscibili i bambini ricorrendo ad una pratica terribile, fortemente contestata dalla cittadinanza, la marchiatura a fuoco. Solo dopo numerosi scandali e proteste, al posto del marchio a fuoco sulla pelle, fu apposto sull’orecchio dei bimbi un sigillo d’argento.
Questa fu solo una delle tante vicende che colpì i tantissimi esposti della Ruota di Cagliari. Le cronache dell’epoca raccontano che la maggior parte di quei bambini, malati e denutriti, morivano poco dopo l’abbandono o, al massimo, alcuni giorni dopo, mentre quelli che sopravvivevano erano comunque destinati ad una vita di stenti. Solo pochi ebbero un destino più fortunato e di riscatto.
Di quel complesso oggi resta ancora la chiesa. L’ospedale fu chiuso nel 1850, quando gli ammalati furono portati in Via Ospedale, nel nuovo Ospedale San Giovanni di Dioprogettato dall’architetto Gaetano Cima e comunemente chiamato Ospedale Civile, oggi a sua volta in gran parte chiuso e trasferito al Policlinico Universitario di Monserrato. Quei locali che ospitarono dapprima l’antico convento e poi l’ospedale furono convertiti in un edificio scolastico sino al 1992 e, dopo un periodo di abbandono, tra il 2005 e il 2009 furono restaurati e trasformati in un ostello. Sulla dolorosa storia dei bambini cagliaritani affidati alla Ruota degli Esposti è invece calato l’oblio.
Attualmente, in Sardegna non è presente alcuna Culla per la Vita. L’auspicio è che presto l’Isola ne possa essere fornita, così da poter dare anche qui una seconda chance a bambini meno fortunati e riscattare l’esito nefasto della versione originale sperimentata nella Cagliari che fu.