Appena uscito il nuovo lavoro del poliedrico ed eccentrico scrittore e artista sassarese, Nello Rubattu, orgoglioso come pochi delle sue radici e della sua città natale, tanto da dedicargli una nuova avventura letteraria stavolta tutta dedicata al cibo.
Non una raccolta di ricette, non un breviario del buon cuoco autodidatta, ma un tuffo nei cibi storici e caratteristici del capoluogo del nord Sardegna, che diventano pretesto per raccontare aneddoti, storie, personaggi tipici della Sassari senza tempo. 17 racconti per 17 piatti.
Un libro che narra il locale, senza pretese di universalità filosofica, ma che diventa davvero un racconto del mondo. Nello Rubattu si conferma un istrionico e genuino narratore del popolo, senza retorica. Perché scrive di ciò che sa, che vive, che ama, scrive per necessità oltre che per passione.
“Non bisognerebbe mai dire consigli di lettura. Mai! Al massimo, si può dire: «Boh, sai… Fai un po’ come facevo io. Chiudi gli occhi e il primo libro che ti capita, leggilo. Ma non dall’inizio. Aprilo, sempre a occhi chiusi, a caso. Se sei fortunato vai subito al capitolo finale. Magari, scoprirai che questa è l’unica maniera di leggere Ulysses e capirci qualcosa».
Gesuino Nemus
MaoMao, e la sua “Aragosta alla catalana”, stanno al centro del libro, vi avverto. Io l’ho letto così. Sono stato fortunato. E, da lì, sono andato prima a ritroso e poi in avanti nella narrazione, ma tenendo sempre MaoMao e la sua aragosta – ‘sto capolavoro di personaggio -, come parametro. E questo mi ha permesso, invertendo casualmente l’ordine degli addendi, di raggiungere la somma perfetta nel romanzo: scombinando l’ordine del climax il risultato non cambia, anzi, migliora!”
“Quello che ha scritto Nello non è un libro di cucina, meglio, non è solo un libro di cucina. Intanto perché le ricette dei piatti tipici sassaresi non sono solo quelle.
Pasquale Porcu
Mi interessa di più, invece, la descrizione del contesto sociale nel quale Rubattu inserisce quei piatti. Un contesto poverissimo, nel quale i borbottii dello stomaco della ragazzaglia che indossava gli spigatoni con martingala, venivano placati da cibi altrettanto poveri: erbe di campo, come le bietole e la cicoria in giudiziosi abbinamenti con le uova, e con lattughe, cavolfiori e finocchi che abbondavano negli orti che circondavano Sassari o che occupavano parti di città, come la valle dell’Eba Ciara, regno di zio Antonio “Piccheuna” che dispensava cavoli e ravanelli alla Sassari ghiotta. Nello descrive quel mondo con poesia e a volte con un po’ di nostalgia. E allora ben vengano la ricetta delle melanzane alla sassarese o dei carciofi e patate. Ma sono solo un pretesto per raccontare le storie dei poveri ma belli, e sfigati, di Caterina, deportata a Torino a fare la serva, o di Settemutande, hidalgo dei quartieri bassi.
E siamo disposti anche a chiudere un occhio sulle “never end stories” di molti racconti: ci appaga il fatto che, attraverso quelle storie, entriamo nel vivo delle emozioni che potevano creare un radione massiccio dotato di giradischi o la scoperta delle prime pizzette al taglio o dei panini a prova di HCCP, ripieni di polpi”