“Io le donne le ho messe ma sono anta, ragazze cresciute. Se dovevano sposarsi si sono già sposate, se dovevano far figli li hanno già fatti”. Hanno fatto scandalo negli scorsi giorni le parole della stilista Elisabetta Franchi in merito a donne, maternità e lavoro. L’imprenditrice ha purtroppo rivelato una pratica comune e toccato un nervo scoperto del nostro Paese che contribuisce a disegnare uno scenario desolante in tema di occupazione femminile.
Ancora oggi, infatti, portare avanti una gravidanza mantenendo il proprio lavoro rappresenta una vera impresa perché licenziamenti e demansionamento sono all’ordine del giorno. È diffusa l’idea che la scelta di avere un figlio sarà uno sconvolgimento solo per la vita della donna: ad un uomo, ad esempio, durante un colloquio di lavoro non verrà mai chiesto se desidera o se ha figli perché (per svariate ragioni sociali ma anche culturali) si ritiene che questi non influiranno sulla sua vita, sul suo impegno e sulla sua carriera lavorativa.
Ha fotografo e confermato un quadro critico per le mamme lavoratrici in Italia il rapporto “Le Equilibriste. La maternità in Italia nel 2022” diffuso il 4 maggio scorso da Save the Children. Il rapporto svela che in ambito lavorativo e retributivo le donne che diventano madri sperimentano una condizione definita “motherhood penalty” (o “child penalty gap”), cioè una penalizzazione sul mercato del lavoro a causa della maternità e delle normative ad essa connesse. La presenza di bambini in famiglia, infatti, incide in modo negativo sul tasso di occupazione femminile: secondo il report il 42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata con un divario rispetto agli uomini di più di 30 punti percentuali. Cifre che variano in base alle zone del Paese, dal 62,6% del Mezzogiorno fino al 29,8% del Nord passando per il 35,8% del Centro.
Secondo i numeri dell’ultimo anno, il tasso di occupazione dei padri cresce all’aumentare del numero di figli minorenni, quello delle madri tende invece a calare. A fronte del 61% di madri con un figlio minorenne che hanno un lavoro, i padri occupati sono l’88,6%. Il dislivello aumenta quando si hanno due o più figli minorenni (donne occupate 54,5% e uomini 89,1%), con uno scarto di ben 34,6 punti. Inoltre, il 39,2% di donne con 2 o più figli minori ha un contratto part-time e solo poco più di 1 contratto a tempo indeterminato su 10 tra quelli attivati nel primo semestre 2021, è a beneficio delle donne.
Interessanti anche i dati relativi alle dimissioni delle madri e dei padri di bambini dai 0 ai 3 anni. Le lavoratrici madri rappresentano il 77,2% del complesso delle dimissioni a carattere volontario. Tra le motivazioni per aver abbandonato il proprio impiego, quella più frequentemente indicata è la difficoltà nel conciliare la vita professionale con le esigenze di cura dei figli spesso per l’assenza o i costi troppo elevati dei servizi sul territorio, come gli asili nido.
Elaborato dall’Istat e incluso nel rapporto di Save the Children è anche il “Mother’s Index” che misura, attraverso 11 indicatori, le condizioni delle madri nelle varie regioni italiane in tre diverse aree: quella della cura, del lavoro e dei servizi. I risultati rilevano profondi divari tra Nord e Sud. Le regioni del Nord mostrano una maggiore attenzione alla qualità delle condizioni socioeconomiche delle madri: in prima posizione troviamo la provincia autonoma di Bolzano e alla seconda quella di Trento, seguono l’Emilia-Romagna, il Friuli-Venezia Giulia, la Lombardia, la Toscana e la Valle d’Aosta. Al contrario, le regioni del Mezzogiorno (insieme al Lazio) si posizionano tutte sotto il valore di riferimento (pari a 100): Sicilia (17° posto), Puglia (18° posto), Basilicata (19° posto), Calabria (20° posto) e Campania (21° posto). La Sardegna si trova al 14° posto, comunque al di sotto del valore 100.
La pandemia da Covid-19 degli ultimi anni è stata un acceleratore di disuguaglianze sociali ed economiche che ha colpito fortemente il versante femminile della popolazione, e in particolar modo le mamme. Non a caso, la recessione conseguente alla pandemia è stata etichettata come “shecession”, a causa dell’impatto e dello sconvolgimento economico negativo per le donne rispetto a quello per gli uomini. Recessione che, in base ai dati raccolti da Save the Children, sarebbe più opportuno definire come una “momcession”.
Alla lettura del rapporto emerge quindi una condizione di svantaggio delle donne, e in particolare delle madri. Risulta evidente, come specifica Save the Children, la necessità di misure mirate che consentano di poter adattare le esigenze della genitorialità a quelle dell’ingresso o della permanenza nel mondo del lavoro. Inoltre, è fondamentale tutelare i diritti delle lavoratrici spesso esposte a condizioni di precarietà, vessazioni e ricatti in caso di gravidanza e sanzionare i fenomeni di mancato accesso o licenziamento dall’impiego per motivi legati alla maternità.