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Le origini misteriose dei Mamuthones

Cosa si nasconde dietro queste maschere di Mamoiada, le più famose del Carnevale sardo?

di Alba Marini
5 Marzo 2021
in Folklore & Tradizioni
🕓 4 MINUTI DI LETTURA
4.8k 253
Mamuthones. Foto AdobeStock | Mirko Macari

Mamuthones. Foto AdobeStock | Mirko Macari

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Ogni saltello è seguito dal suono metallico dei pesanti campanacci, scossi con un colpo di spalla. Ogni atterraggio al suolo è ritmato, pesante, quasi animalesco. Così si muovono i Mamuthones, le maschere più famose del Carnevale sardo. Il loro costume è costituito da una maschera chiamata “visera” e da una veste di pelli chiamata “mastruca”. La visera è di legno nero e lucido e ha caratteri del viso molto marcati. La mastruca è fatta di pelle di pecora nera e la schiena del Mamuthone è ricoperta da “sa carriga” (una serie di campanacci di varie dimensioni). Ma cosa si nasconde dietro queste Maschere?

Ciò di cui vogliamo parlare non riguarda il “sotto le vesti”, quindi gli attori che si celano tra pelli e campanacci, ma ciò che i Mamuthones rappresentano veramente e il significato del rito che li vede protagonisti. I Mamuthones, infatti, si prestano a numerose interpretazioni, proprio per il loro aspetto particolare e il loro modo di muoversi in una sorta di danza che non ha niente a che vedere con su ballu tundu, il ballo sardo più conosciuto.

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Partiamo dal loro luogo d’origine. I Mamuthones sono – insieme ai più colorati Issohadores – le maschere tipiche di Mamoiada, paese situato nella parte più interna della Barbagia di Ollolai. Il paesino di Mamoiada è diventato famoso proprio per il suo rito carnevalesco ancestrale e le sue maschere che – insieme ai Boes e Merdules di Ottana – sono sicuramente le più famose dell’intero territorio isolano.

I Mamuthones, con il loro aspetto e le loro movenze, sembrano riportarci indietro nel tempo, in un mondo in cui il carnevale era un rituale e l’uomo era ancora molto ancorato alla terra e agli animali. In verità, secondo gli storici, mancano le fonti che testimonino la presenza dei Mamuthones in tempi lontani. Non ci sono infatti testimonianze scritte del rito, nemmeno del Wagner, etnologo tedesco considerato uno dei maggiori studiosi della lingua e cultura sarda. Secondo alcuni studi, le testimonianze orali attesterebbero le sfilate dei Mamuthones almeno al XIX secolo. Per via di queste “attestazioni scritte mancate”, tuttavia, la maschera più famosa della Sardegna sembrerebbe non riuscire ad avere un’origine e un’età precisa. Persino il Touring Club – associazione ultracentenaria impegnata nella promozione turistica – nel 1928 non fece alcun riferimento ai Mamuthones ma citò esclusivamente il “S’Antoni de su ‘ohu”.

Foto AdobeStock | Mirko Macari

Non solo l’origine esatta dei Mamuthones è sconosciuta, ma anche il loro nome ha un significato misterioso. Secondo alcuni, la parola Mamuthone deriverebbe da Melaneimones, nome dato dai sardi agli antichi fenici e che avrebbe il significato di “facce nere”. Secondo altre interpretazioni, la parola avrebbe origine dal termine Mommotti, l’“uomo nero” della tradizione sarda, utilizzato per spaventare i bambini ancora oggi. Ma esistono svariate interpretazioni a riguardo, una delle quali scorge nel nome della maschera dei riferimenti a Maimone, divinità che secondo alcuni studiosi corrisponderebbe al dio fenicio delle piogge.

Il significato del rito dei Mamuthones – la cui prima “uscita pubblica” avviene il 17 gennaio di ogni anno in occasione del giorno dedicato a Sant’Antonio – è (così come il nome dato alla maschera) molto misterioso. Secondo un’opinione diffusa, tali maschere trarrebbero la loro origine dall’età nuragica e in particolare dai riti propiziatori. Considerando l’importanza della figura del toro in Sardegna, è inoltre molto popolare anche l’interpretazione che vede nei Mamuthones una sorta di omaggio al bue, simbolo della potenza del maschio e animale utile e prezioso per le civiltà di tutti i tempi.

Più comunemente, il carnevale mamoiadino viene anche associato alla vittoria dei Sardi sui Saraceni, imprigionati e condotti in corteo. In questo caso, gli Issohadores rappresenterebbero i sardi vincitori (più colorati, allegri e agili) mentre i Mamuthones rappresenterebbero i perdenti imprigionati. Altro legame riscontrato dagli esperti di storia della Sardegna è quello con i culti dionisiaci, originari dell’antica Grecia e dal carattere tumultuoso. Le cerimonie dedicate a Dioniso, infatti, vedevano i seguaci danzare coperti da pelli di animali, al ritmo del ditirambo (un canto corale cupo e potente che accompagnava i “manifestanti” in stato di ebbrezza).

Mamuthones. ? AdobeStock | Giuma
? AdobeStock | Giuma

Maschere simili ai Mamuthones si trovano in diverse parti d’Europa. Un esempio di costume che assomiglia molto a quello della maschera mamoiadina è quello indossato da alcuni Silvesterkläuse, maschere tipiche del Canton Appenzello Esterno (Svizzera nord-orientale). Altro costume animalesco che ricorda (per via delle pelli indossate) il Mamuthones è quello del Kuker, figura della tradizione bulgara correlata agli antichi riti dionisiaci, ai quali spesso si fa risalire anche l’origine delle maschere di Mamoiada.

I Mamuthones sono tra le maschere più particolari del panorama folklorico italiano ed europeo. La maschera antropomorfa, nera come la pece, con i tratti marcati, che copre il viso degli interpreti del rito, affascina e intimorisce allo stesso tempo. La tradizione non è una scienza esatta ma è un complesso di memorie trasmesse di generazione in generazione. Come spesso accade nelle cose che si tramandano, la “prima voce” può perdersi e allora non si riesce più a rintracciare le origini. Anche i Mamuthones non fanno eccezione e, come simboli della tradizione, non hanno bisogno di essere costretti in nessuna interpretazione particolare per mantenere il loro fascino, che finisce per accentuarsi, al contrario, proprio grazie al mistero che portano sulle loro pelli e maschere di legno.

Tags: CarnevaleMamoiadaMamuthonesSardegna
Alba Marini

Alba Marini

Copywriter e giornalista pubblicista, ama viaggiare con qualunque mezzo: gli aerei, le navi, la penna e la fantasia. Per lei la scrittura è una finestra sul mondo, capace di raccontare ogni cosa, anche ciò che non esiste.

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