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Io Racconto: “TAGALOG” di Paolo Di Crescenzo

di Aurora Redville
29 Maggio 2020
in Libri
🕓 16 MINUTI DI LETTURA
49 3
Foto Pixabay

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Bentrovati amici lettori,

per il nostro appuntamento di #ioraccontoaSH vi propongo un racconto che mi ha colpita moltissimo.

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L’autore si chiama Paolo Di Crescenzo, ha 47 anni e vive in provincia di Savona. Ha pubblicato vari racconti in diverse antologie (è presente in tutti i libri nella foto) e quattro libri tutti suoi: Sguardo Rosso sangue (il primo di racconti) e i romanzi Quando viene la notte, E così sia, Labbra rosse sulle quali morire.

Chi mi conosce sa che non sono una grande amante degli horror, ma i gialli li leggo da quando sono ragazzina, questa storia infatti assume le caratteristiche del giallo, del thriller e della suspence pura, un mix ben riuscito di questi tre elementi.

L’ho letto di sera prima di andare a dormire, e mi sono venuti i brividi. Paolo è davvero molto bravo, sa coinvolgerti nella lettura, scrive in modo scorrevole e la narrazione cattura. Se siete amanti dei noir è per voi!

Suggerisco la colonna sonora, stavolta è stato più difficile trovarne una adatta ma alla fine la scelta è ricaduta su un pezzo bellissimo, Personal Jesus, interpretato magistralmente dal mefistofelico Marilyn Manson.

Adesso mettetevi comodi sul divano, accendete la luce sul tavolino e buona lettura.

Buona lettura
Aurora Redville

TAGALOG

di Paolo Di Crescenzo

           Il nuovo paziente si chiama Antonio Collutti, ha 25 anni, un fisico asciutto, muscoloso, i capelli scuri rasati. Il naso affilato gli taglia il viso in due metà apparentemente discordanti tra loro.

            Non ho notato segni particolari evidenti. L’arcata sopraccigliare destra è appena più bassa della sinistra. Sembra che il soggetto si sia sforzato per fare un occhiolino e che sia rimasto bloccato in quella posizione. È stato operato di appendicite all’età di undici anni. La cicatrice sull’addome è ancora evidente nonostante il tempo trascorso. Non era stato fatto un bel lavoro. Da quel poco che ho come informazioni non risultano malattie genetiche, né essere in cura con alcun tipo di medicinale (dati fornitimi dall’ospedale militare di Genova).

            Ho subito prescritto delle analisi del sangue. C’è qualcosa che non mi convince. Voglio vederci chiaro.

            Dopo due giorni ho ricevuto i risultati e i miei dubbi si sono trasformati in turbamenti. Non riesco a pensare ad altro. Non si riscontrano dati alterati. Il paziente risulta essere in perfetta salute.

            Non capisco come possa essere in coma.

            Mi è stato riferito che Collutti è stato trovato di prima mattina nella sua branda nel carcere di Genova (deve scontare sette anni per rapina a mano armata) immerso in una pozza di sangue.

            Ma da dove è fuoriuscito visto che non sono presenti tagli sul corpo? E come è possibile che il paziente non sia morto dissanguato?

            Nel pomeriggio ho convocato il professor Felice per parlare del caso, ma non è servito a molto il consiglio del luminare. Anzi, a dire il vero, non c’è stato nessun consiglio.

            Non vuole esprimere alcuna opinione. “Non so che dire” è stata la sua risposta alla mia domanda.

            Domani mattina ho previsto una minuziosa visita al paziente.

            Insieme a me c’è l’infermiera Cecilia De Longhi. Vedo nei suoi occhi un certo timore, ma la rassicuro con qualche battuta. Non so se abbia funzionato perchè la sua espressione non è cambiata molto. Forse anche lei vede qualcosa di particolare nel mio sguardo, nei miei gesti lenti e incerti, nelle mie parole appena sussurrate.

            Il paziente è ancora in stato comatoso, verifico l’assenza di anomalie nel battito cardiaco e nelle funzioni vitali. L’elettrocardiogramma è stabile e assolutamente normale.

            Sembra quasi che stia soltanto dormendo.

            Ho spogliato il ragazzo e ho provveduto a esaminarne il corpo. Ho notato subito un vistoso livido violaceo sulla coscia destra, all’altezza del quadricipite femorale (una “gamba gigia?”), ma nient’altro di rilevante. Un tatuaggio sul bicipite della spalla sinistra cattura la mia attenzione. È il disegno di una ferita ricucita goffamente (il primo pensiero che ho avuto sono state le cicatrici sul corpo di Frankenstein nell’omonimo film con Boris Karloff). Lo sfioro con la punta delle dita. È stato fatto molto bene. Sembra una vera cicatrice.

            “A me fa venire i brividi” dice l’infermiera. Alzo gli occhi e rimango in silenzio a guardarla. È spaventata. La mano che tiene il mio stetoscopio trema vistosamente. Sente anche lei che c’è qualcosa che non va in quel ragazzo. È la stessa sensazione che provo anche io.

            “Stia tranquilla Cecilia” le dico abbozzando un sorriso ” è soltanto un malato come tanti altri”.

            Mi giro ed esco dalla stanza. Non credo nemmeno io alle mie parole.

            Sono stato svegliato nel mezzo della notte da una telefonata dall’ospedale. Una voce concitata, che a stento ho riconosciuto, mi ha comunicato di aver udito delle urla nella camera di Collutti. Si è precipitato nella stanza, convinto di trovare il ragazzo sveglio, magari seduto sul letto o in procinto di alzarsi, ma quando vi è giunto ha visto la stessa immagine degli ultimi tre giorni.

            Il ragazzo immobile, i macchinari che lo tenevano in vita ancora attaccati e perfettamente funzionanti.

            Da dove sono arrivate le voci? È possibile che Collutti si stia giocando di noi?

            Continuo a non comprendere. Non posso fare a meno di alzarmi, tanto non riuscirei più a dormire. Mi vesto in fretta e corro all’ospedale.

            Quello che ho trovato mi ha sorpreso, ma soprattutto ha aumentato la mia inquietudine.

            Le lenzuola del letto di Collutti erano impregnate di sangue. Ho mandato subito delle tracce ad analizzare. Ritengo impossibile possa essere suo…sarebbe certamente morto in quel caso.

            I risultati sono arrivati poco dopo. Sconvolgenti. Il sangue risulta essere compatibile con quello del ragazzo. Non è possibile! Un brivido mi fa scivolare il documento dalle mani. Sto tremando.

            Che sta accadendo? Ho in cura un paziente in coma, che continua ad avere emorragie. Ma da dove esce il sangue? E come può non morire dissanguato?

            Ho deciso che trascorrerò la prossima notte al suo fianco.

            Quando arrivo nella stanza di Collutti sono quasi le dieci. Ho preso una poltrona e l’ho affiancata al letto. È comoda, ma non credo di potermi addormentare. La tensione mi sta divorando. Ho perfino ricominciato a rosicchiarmi le unghie. Il silenzio della notte avvolge la camera, mi accarezza gelido, mi bisbiglia con voce suadente di uscire da quelle quattro mura opprimenti. Sono realmente tentato di farlo.

            Mi alzo, compio un paio di passi verso la porta, poi mi fermo. Non posso fuggire, non posso lasciar perdere ogni cosa, rimanere con il tormento che mi attanaglia le viscere. Devio verso la finestra, scosto la tendina e guardo fuori il buio della mia mente. Le fioche luci che illuminano i viali dell’ospedale sembrano le misere idee che mi vagabondano nel cervello. Che devo fare? Come uscire da questa situazione? Sono immerso nei pensieri quando un rumore cattura la mia attenzione. Mi giro verso la stanza, verso il letto dove giace il ragazzo. Tutto appare normale, ma non è così. E’ un ansare quello che odo, un respiro affannato, il mugugno di una atroce sofferenza.

            “C’è qualcuno?” chiedo in uno spiffero di voce, flebile come il coraggio che sto perdendo.

            Non ricevo alcuna risposta, ma sono più che certo che sia il ragazzo a produrre quei suoni. Mi avvicino al letto. Sento le gambe molli. Guardo la porta semiaperta della camera e ancora una volta la voglia di scappare mi assale vorace. Due passi in più e mi ritroverei nel corridoio, altri quattro e sarei nell’ascensore. Lontano, salvo.

            Da che cosa poi?

            Ormai sono al capezzale di Collutti. Non c’è nulla di anormale, il corpo immobile, il coma che persiste. Ora però i rumori sono più distinti. Mi chino su di lui. Ne contemplo il viso. Le palpebre sembrano danzare come se fossero nel pieno di una concitata fase REM. La schiena si piega ancora qualche centimetro, quando il ragazzo spalanca gli occhi. Non penso di aver urlato, non sento nessuno accorrere per le mie grida. Rimango appeso a quello sguardo, folgorato dalla muta forza che sprigiona. Una vampata di calore mi intorpidisce le membra, sento i capelli rizzarsi in testa, i peli delle braccia spingere contro il camice inamidato.

            Collutti possiede gli occhi di colore diverso, il destro è nocciola, il sinistro azzurro mare. Ribrezzo, nausea. So che sono caratteristiche normali in natura, ma queste sono state le sensazioni che ho immediatamente provato.

            Forse perché sono certo che quegli occhi non siano i suoi.

            “Dapat ako mawalan ng dito” mi ha detto, muovendo appena le labbra, continuando a fissarmi, scavando nella mia mente, raschiando pensieri, leggendo intenzioni.

            Gli ho fatto un cenno muto di non aver capito.

            “Dehinc exeo debeo” ha ripetuto con la stessa voce gutturale di prima. Questa la so. Latino. “Devo uscire da qui.”

            Poi gli occhi gli si sono rivoltati all’indietro. Due gemme bianche nello scuro contorno del suo volto. Un filo di saliva gli è scesa da un angolo delle labbra, ho visto i muscoli del viso guizzare come se stessero ribollendo. Il rumore di un peto mi ha sconvolto, l’odore nauseabondo che ne è conseguito è indescrivibile.

            Sono uscito di corsa dalla stanza, con il cuore in gola e dei brividi lungo la schiena.

            Questa mattina ho dovuto lottare a lungo con me stesso per tornare nella stanza del paziente.

            Inutile scrivere che Collutti è ancora in coma. La diagnosi è sempre la stessa, le sue condizioni non mutano.

            Io so che non è così.

            Ho fatto delle ricerche sulla prima frase pronunciata dal ragazzo. Mi è stato d’aiuto Ariel, il domestico filippino che lavora a casa mia. Collutti ha parlato in tagalog, una delle lingue principali della Repubblica delle Filippine, la più importante in quanto a numero di parlanti.

            Il significato è lo stesso della sua conseguente traduzione latina “Devo uscire da qui”.

            Perché non ha parlato in italiano?

            Come fa Collutti a sapere il tagalog e il latino?

            Credo che Collutti sia posseduto.

            Chiamerò Don Vito e gli chiederò un parere. Lui saprà cosa dirmi.

            Don Vito è arrivato verso le nove e trenta, dopo la funzione del mattino. Mi conosce da una vita, sa che di me si può fidare ed io di lui. Al telefono è stato molto comprensivo, ha immediatamente accettato di venire a trovarmi in ospedale.

            Ha portato con sé un piccolo crocifisso di legno e una boccetta con l’acqua santa. La sola vista di quegli oggetti mi ha fatto venire le vertigini.

            Prima di andare da Collutti Don Vito mi ha parlato a lungo della pratica dell’esorcismo, di tutti i passaggi che prevede il rituale ufficiale riconosciuto dalla Chiesa Cattolica. Mi ha chiesto del paziente, della sua storia, ha voluto vedere la cartella clinica, tutti gli esami medici sostenuti dal ragazzo. Mi ha chiesto quanto conoscevo il paziente, se era avverso al sacro, se esisteva una causa iniziale dei suoi disturbi, se ero sicuro che avesse parlato in tagalog e in latino.

            Alle mie flebili e insufficienti risposte Don Vito scosse il capo più volte, poi, quasi per compiacermi mi ha chiesto di fargli vedere il ragazzo, specificandomi che lui non era un esorcista e che per praticare un esorcismo straordinario c’era bisogno dell’autorizzazione dell’ordinario diocesano.

            “Lo so Don Vito, lo so” gli ho detto in maniera quasi supplichevole. Lui ha capito. Doveva aiutarmi.

            Il silenzio della stanza era interrotto soltanto dai macchinari che tenevano in vita Collutti. Don Vito si è avvicinato al paziente, recitando preghiere di liberazione spruzzandogli il viso con l’acqua benedetta.

            Non è successo niente.

            Dovrei essere sollevato e invece mi sento deluso.

            Il giorno successivo ho visitato il paziente da cima a fondo per l’ennesima volta. Devo scoprire quello che sta accadendo, che mi sta togliendo il sonno la notte, che mi sta lacerando i nervi.

            Ho scoperto una cosa sconvolgente.

            Il tatuaggio sul braccio…la ferita che rappresenta. Si sta aprendo.

            La cosa mi incuriosisce e mi spaventa al tempo stesso.

            È un tatuaggio, un disegno sulla pelle, non si può modificare da solo!

            Sono stato nel carcere di Genova e ho avuto modo di discorrere qualche minuto con Salvatore Caliciuri, il compagno di cella di Collutti. Un uomo di mezza età, magro come un chiodo, il viso smunto e allungato, due vistose occhiaie scure come contorno a due occhi spenti. Ha una cicatrice sul collo, molto probabilmente una coltellata. Caliciuri non aveva voglia di parlarmi, ma quando gli ho chiesto del tatuaggio di Collutti si è drizzato prontamente a sedere sulla branda.

            “Che ha quel tatuaggio?” mi ha chiesto con occhi allarmati.

            “E’ quello che voglio chiedere a lei” gli ho risposto.

            Caliciuri ha chinato il capo, un sospiro di rassegnazione è spirato dalla stretta fessura delle labbra. Sono trascorsi attimi di esitazione, forse di ripensamenti. Ho avuto come l’impressione che Caliciuri stesse rievocando nella memoria ricordi che aveva sepolto tempo addietro. Poi ha alzato gli occhi. Brillavano di lacrime imminenti. Vedere piangere un uomo dai lineamenti così arcigni è stato sconvolgente. Pensavo che i suoi occhi non fossero in grado di lacrimare. Mi ha raccontato che il tatuaggio sul braccio di Collutti era stato fatto per nasconderne uno precedente.

            Gli ho domandato il perché, che cosa vi fosse disegnato prima, con un’innocenza quasi banale.

            L’uomo ha sbuffato un sorriso amaro. “Una ragazza magnifica” mi ha risposto “un demone terribile” ha poi aggiunto, sdraiandosi sulla branda e rivolgendomi le spalle.

            È bastato digitare su Google demone filippino donna per avere il risultato: Aswang, un demone – vampiro con le sembianze di una donna molto bella di giorno e uno spaventoso demone alato di notte, insofferente all’aglio e agli amuleti.

            Sapevo di non sbagliarmi. Ora però devo studiare un piano.

            Si è staccato anche il terzo dei dieci punti di sutura che chiudono la ferita/tatuaggio di Collutti.

            Ho visto un occhio guardarmi da dentro la cicatrice. Era vivo. Ha sbattuto la palpebra.

            Non sono pazzo, non sono pazzo, non sono pazzo.

            Penso di non avere altra scelta.

            Ho agito di nascosto e nel pieno delle mie facoltà mentali. Nessuno mi crederebbe se dicessi quello che sta accadendo.

            Ho provveduto a suturare il tatuaggio di Collutti.

            Ho bisogno di tempo per le mie ricerche, per trovare un modo per sconfiggere il demone che abita il corpo del ragazzo. Don Vito mi ha sbattuto praticamente il telefono in faccia. Non mi crede. Dice che, anche se avessi ragione, lui non potrebbe nulla contro questi malefici.

            Ho paura, non dormo più la notte. La luce sul comodino è sempre accesa. Mi è tornata la stessa fobia del buio che avevo da bambino.

            Speriamo bene.

            Una telefonata dall’ospedale mi ha comunicato che Collutti è deceduto questa mattina alle 8 e 30.

            Il corpo è stato trovato da un’infermiera immerso nel proprio sangue. Tanto sangue, troppo sangue.

            L’ennesima emorragia gli è costata cara. Non ho ancora avuto modo di vedere il corpo, ma ho l’impressione che il mio lavoro del 23 marzo (sutura del tatuaggio) non sia servito a nulla.

            Sarò perseguitato dal demone Aswangpoiché ho tentato di impedirgli di uscire dal corpo di Collutti?

            Attendo con ansia l’evoluzione dei fatti. Domani è prevista l’autopsia. Voglio essere presente anche io. Non so se troverò qualcosa di interessante per le mie ricerche, ma non posso mancare. Sono curioso di vedere il tatuaggio.

            Bussano alla porta. Non aspetto nessuno…

            …o forse sì?

Ti piace scrivere? Hai un racconto nel cassetto?
Inviacelo a [email protected]. I migliori saranno pubblicati in questa rubrica

Tags: Aurora RedvilleIo RaccontoioraccontoaSHPaolo Di Crescenzoracconti
Aurora Redville

Aurora Redville

Scrittrice, bookinfluencer, blogger e autrice del romanzo “L'effetto Grant”. Nata e cresciuta in Sardegna, vive in Valsesia in una casa ai confini del bosco con il compagno, i due figli e il suo cane Ohm. Le sue più grandi passioni sono la scrittura, il mare, la pittura e il cinema. Tutto è possibile è il mantra che si ripete ogni giorno.

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