Sport e salute mentale: l’esempio di Simone Biles

La vicenda con protagonista la celebre ginnasta statunitense come processo di normalizzazione di un problema sempre più diffuso nel mondo dello sport

Simone Biles alle Olimpiadi di Rio de Janeiro 📷 Fernando Frazão/Agência Brasil, CC BY 3.0 BR

Nel corso delle Olimpiadi di Tokyo, la ginnasta di 24 anni Simone Biles ha vinto la medaglia di bronzo alla trave dopo aver rinunciato a tutte le gare precedenti per potersi concentrare sulla propria salute mentale. Una decisione molto importante presa nel momento in cui tutti i riflettori del mondo erano puntati su di lei e sulle sue prestazioni.

Come ha raccontato in conferenza stampa, i problemi sono iniziati durante la prima prova di volteggio nella gara di ginnastica, in cui Simone non è riuscita ad eseguire una delle acrobazie in cui è più portata, il salto con due avvitamenti e mezzo. Ha riferito di aver sofferto di una condizione detta in termini tecnici “twisties”: un’improvvisa sensazione di vuoto e blocco mentale che porta a smarrire l’orientamento nello spazio. L’atleta che ne diventa vittima può quindi incorrere in gravissimi infortuni. Alcune delle cause che generano tale disturbo sono le aspettative altrui e le pressioni a cui gli sportivi sono sottoposti che assorbono loro energie mentali e fisiche.

Appena si è diffusa la notizia del suo ritiro dalla gara a squadre, la vicenda è stata narrata dai media con poca delicatezza e sensibilità. Addirittura, alcuni hanno definito la rinuncia di Simone come una scusa per giustificare una scarsa preparazione. Dimostrazione che la società di oggi non riesce ancora ad affrontare con la giusta serietà i problemi legati alla salute mentale e che è presente poca consapevolezza sul ruolo che essa ha nella vita di tutti, anche di chi appare “indistruttibile” come gli atleti.

Dall’altro lato Biles ha invece ricevuto la solidarietà di tanti altri sportivi. La ginnasta statunitense Finnegan ha raccontato al “The Guardian”: “Ho avuto i twisties da quando avevo solo 11 anni. Non immagino quanto spaventoso può essere se accade durante una gara. È un momento in cui non hai il controllo sul tuo corpo e su quello che fa nello spazio”. L’ex calciatore Adriano ha scritto sui social “So esattamente di cosa stai parlando, anche io ho passato una situazione simile”. Anche il campione del nuoto Michael Phelps ha dichiarato in tv: “Mi sono sentito pure io come ha detto Simone, con il peso del mondo sulle spalle”. In tanti hanno preso decisioni simili a quelle della giovane ginnasta. Naomi Osaka, tennista giapponese, ha annunciato il suo ritiro dal torneo Roland Garros per proteggere la sua salute mentale. Anche Tom Dumoulin si è preso una pausa dal ciclismo e la giocatrice di basket Liz Cambage ha scelto di non prendere parte alle Olimpiadi. Tra gli atleti italiani, Paltrinieri e Burdisso hanno affermato di aver avuto dei problemi molto simili e hanno espresso tutto il loro sostegno a Simone. Solo pochi mesi fa, inoltre, i calciatori Alvaro Morata della Juventus e Josip Ilicic dell’Atalanta, hanno affrontato lo stesso argomento confessando di aver combattuto con il cosiddetto “male oscuro”, la depressione.

Tutti questi atleti hanno contribuito ad aprire una discussione sulla rilevanza della salute mentale e su quanto sia fondamentale prendersene cura, proprio come si fa quando si ha un infortunio o una malattia fisica. Spesso gli sportivi vengono rappresentati come persone forti, imbattibili e senza debolezze e non viene preso in considerazione l’effetto di una vita fondata sulla competizione e sui sacrifici. Per questo motivo i disturbi di tipo psicologico sono vissuti da chi li sviluppa con vergogna, e da chi li osserva dall’esterno come un qualcosa di ingiustificato e inspiegabile.

Ma problemi psicologici come depressione, ansia e attacchi di panico, disturbi del comportamento alimentare o della personalità stanno diventando sempre più diffusi e imparare a parlarne, a non criticare e bollare chi li vive dovrebbe essere la normalità. Ammettere di soffrire di un disagio psichico tende a creare solitamente più imbarazzo di quello fisico solo perché viene ancora giudicato sulla base di pregiudizi derivanti da un’epoca in cui la salute mentale era un problema dei “matti”.

Il racconto e le confessioni di questi giovani atleti possono servire finalmente a normalizzare la tematica e possono dare l’esempio a un’intera generazione che accettare i propri limiti per prendersi cura di sé non significa essere fragili, ma essere coraggiosi. Il caso di Biles ci ricorda inoltre come anche gli atleti che siamo abituati a vedere sempre al massimo della loro prestanza fisica, possono attraversare dei momenti di difficoltà che non vanno mai ignorati, ma anzi, affrontati prendendosi del tempo per poi ricominciare più forti di prima.

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