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“Raixe” di Matteo Leone: da Tabarka al blues, e ritorno

di Helel Fiori
3 Agosto 2021
in Musica, People
🕓 4 MINUTI DI LETTURA
245 5
Matteo Leone

Matteo Leone

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“Émmu da tegnise pe man,
figiö da stéssa stória,
pe nu pèrdise mòi.”

Antonello Rivano. “Raixe”

A volte capita che un avvenimento ci cambi radicalmente, segnando un “prima” e un “dopo”: a volte cominciamo “una nuova vita”, altre volte per trovarne una basta cambiare sguardo.

Era la fine del Settecento quando gli abitanti di Tabarka abbandonavano la costa tunisina per fondare le odierne Carloforte e Calasetta: dopo essere emigrati da Pegli (GE) e aver vissuto per duecento anni di commercio e pesca del corallo, perdevano la loro terra e si insediavano nel Sulcis, proteggendo la loro identità tanto da vantare ancora oggi una realtà linguistica, il tabarchino, che a un orecchio poco attento potrebbe sembrare un semplice dialetto genovese, ma che, in realtà, su un tappeto genovese cinquecentesco innesta suoni franco-piemontesi e infiltrazioni lessicali tunisine; dal suono morbido, musicale, con parole tronche o accentate, ad oggi non riconosciuto come lingua minoritaria ma comunque tutelato dal Piano di politica linguistica regionale sardo 2020-2024.

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Se da un viaggio scaturì una nuova realtà per quel popolo, un altro viaggio ci ha permesso di conoscerne il presente: classe 1987, Matteo Leone nasce a Calasetta (vivrà un anno in Mauritania, esperienza che lo segnerà musicalmente) e abbraccia la forte tradizione bandistica calasettana suonando le percussioni nella Banda Musicale G. Puccini, coltivando inconsapevolmente il suo grande talento. Verso i 18 anni frequenta a Bologna una scuola popolare di jazz avanguardistico restando folgorato dall’improvvisazione radicale: “Cos’è questa m***a meravigliosa?” Tornato in Sardegna prosegue la sua formazione fino a sei anni fa, quando si avvicina al blues, senza mai abbandonare del tutto il jazz (suona attualmente nel grande progetto “Snake Platform” guidato da Daniele Ledda, dove trenta improvvisatori inseguono variazioni che a turno i musicisti stessi richiedono, investendo il “prompter” Ledda del compito di diramarle al resto dell’ensemble tramite cartelli).

Il blues arriva nella vita di Matteo dopo un grande dolore che lo allontana dalla musica, ma – si dice che non si sfugga al proprio destino – è proprio lì che quel nuovo linguaggio diventa codice perfetto per esprimere ciò che sente imbracciando la chitarra (che suona da mancino senza invertire le corde). Fonda così i Don Leone con Donato Cherchi (voce) con cui si impone all’Italian Blues Challenge del 2017, accede alle finali europee 2018 a Hell (Norvegia) e alle semifinali dell’International a Memphis. Sfiorare la finale non è un problema: “Ora inizia il vero viaggio” (documentato in “The Search”, prodotto dall’ISRE e diretto dall’etnomusicologo Diego Pani, voce dei cagliaritani King Howl). Esperienza che pianta il seme della ricerca profonda di verità: “Suono blues, ma che cosa sto raccontando? Qual è la mia storia? Ho trent’anni: nel mio passato c’è l’infanzia, c’è Calasetta, la Banda, le serenate, il mare”. È così che nasce l’album in tabarchino RAIXE.

Prodotto dall’Associazione cagliaritana TiConZero e già presentato nello spazio artistico di Officine Culturali di Sennori, verrà in parte suonato questo 15 agosto al Time in Jazz a Berchidda, quando i Don Leone duetteranno con l’artista nigerino Bombino.

Dodici tracce che raccontano l’identità scanzonata e goliardica dei calasettani ma che ne descrivono anche la sofferenza e la paura durante il viaggio d’origine; l’essere sradicati dalla propria terra e sfidare il mare anelando una vita migliore, raccontato nei testi di Matteo, ci riporta al dramma mediterraneo degli ultimi anni: parallelo esplicitato in “Mustru”, scritto con Nepomuceno Bolognini (Simone Lecca), ispirato alla lancinante storia dell’adolescente senza nome morto tra le onde nel 2015 e di cui resta solo una pagella cucita nella tasca.

L’aspetto etnografico/filologico del progetto non è il solo elemento degno di nota: proposto come disco blues, RAIXE sorprende con dolci ballate o commistioni etniche, grazie alla collaborazione dell’artista Farees (musicista e direttore artistico) fortemente voluto da Leone proprio per la conoscenza approfondita delle sonorità tuareg che richiamano le radici tunisine della comunità tabarchina; i due hanno utilizzato circa venticinque strumenti (mandole algerine, liuto berbero, nacchere marocchine, calabash: uno strumento percussivo simile a una zucca, etc. ) regalandoci un suono pieno e strutturato.

L’album risponde quindi alla spinta di Matteo del raccontarsi, non solo riarrangiando i canti goliardici calasettani ma regalandoci un percorso narrativo tra flutti infidi e tramonti pacificanti senza aver paura di trovare il suono migliore per esprimere il mood di ogni brano, avvicinandosi come già detto a sonorità nordafricane e altrettanto facilmente coinvolgere la Banda G. Puccini e il Coro Serenate Calasettane nella dolce serenata di chiusura.

Un album autentico, a tratti biografico, richiama alla mente tradizioni estranee ai più e gli artisti che le hanno raccontate in passato: assonanze con Crêuza de mä di De Andrè, col delta blues di Robert Johnson, coi ritmi africani; avremo tra le mani le radici di Matteo Leone (che seppur nascosto, si offre senza veli) ma avremo anche la sensazione di sentire qualcosa di nuovo e al contempo familiare, come ci appare in foto il volto di un nostro avo sconosciuto in cui ritroviamo la nostra fisionomia.

Non a caso il futuro bootleg (il rilascio dell’album ad inizio 2022) conterrà scatti della Calasetta del primo Novecento recuperate grazie all’archivio digitale Ràixe (omonimo dell’album ma non correlato) affiancate dalle immagini corrispondenti nel presente.

RAIXE sarà fruibile quindi momentaneamente solo attraverso i live, notificati su @matteoleoneblues insieme alle numerose collaborazioni (segnaliamo la partnership con Chiara Effe con la quale proseguirà il progetto in tabarchino).

Tags: bluesCalasettaCarloforteMatteo LeonemusicatabarchinoTabarka
Helel Fiori

Helel Fiori

Chi nasce tondo non muore quadrato. È così che si dice. La propria natura è la propria natura. Fortuna allora è avere una natura stabilmente instabile che non ci limiti, che ci apra ogni strada.

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