Con il suo “Pinocchio” Guillermo del Toro realizza “il progetto della vita”: così il regista ha definito la pellicola disponibile su Netflix dal 9 dicembre, in cui ha potuto finalmente portare a compimento il progetto dedicato al burattino creato da Carlo Collodi nel 1881 così come lo aveva immaginato, dopo 15 anni di tentativi e rifiuti legati al budget richiesto. Il colosso streaming ha infatti messo a disposizione i suoi capitali per un’opera che segna un punto di svolta, per tematiche e tecniche utilizzate, nella storia delle trasposizioni cinematografiche di questo iconico personaggio della letteratura, reinterpretato attraverso lo stile inconfondibile del regista messicano.
Del Toro lavora su un materiale prezioso, la cui importanza è universalmente riconosciuta, ma che possiede anche un valore affettivo personale, legato ai ricordi dell’infanzia e alle letture insieme all’adorata nonna; il romanzo di Collodi stimola la creatività del regista che, fin dall’inizio della carriera, progetta di utilizzare una tecnica caratterizzata da grande perizia artigianale per realizzare la sua pellicola dedicata al burattino: così, dopo tanti anni, “Pinocchio” è diventato un film d’animazione realizzato in stop motion o “a passo uno” -i singoli fotogrammi vengono impressionati uno per volta sulla pellicola da una speciale macchina da presa- che vede a capo del team d’animazione Mark Gustafson, già autore di capolavori quali “Fantastic Mr. Fox” di Wes Anderson, accreditato come co-regista.
Al ritmo del “passo uno”, dunque, il protagonista percorre la sua storia, a cavallo tra vita e morte, amore e odio; la sceneggiatura scritta a quattro mani da Del Toro insieme a Patrick McHale, stravolge la trama del romanzo a cominciare dalla dimensione temporale, per cui il film si svolge durante la dittatura fascista e racconta di un mastro Geppetto (doppiato da David Bradley) disperato per la morte del figlio Carlo durante la Prima Guerra Mondiale; in preda a rabbia e ubriachezza, l’uomo intaglia, in una notte che richiama le atmosfere del “Frankenstein” di Mary Shelley, un burattino di legno pieno di difetti, che inaspettatamente prende vita.
Geppetto ne vorrebbe fare il simulacro del suo bambino, a cui lo confronta continuamente, lo vorrebbe buono e ubbidiente, ma Pinocchio (Gregory Mann) si dimostra subito un ribelle, per suo padre e per il regime fascista. Le avventure vissute dal burattino sono innumerevoli e dimostrano, via via, quanto egli incarni, pur essendo un pezzo di legno, lo spirito vitale più autentico, a dispetto di uomini e donne incapaci di opporsi al regime; lo stesso Lucignolo (Finn Wolfhard), per esempio, è il figlio di un gerarca fascista e, come tutti i suoi amici, è privo di quella scintilla rivoluzionaria così potente in Pinocchio. Il piccolo protagonista, di certo, paga duramente la sua diversità e nonostante la guida del grillo Sebastian (Ewan McGregor), muore crudelmente, così come nel romanzo di Collodi del resto, e risorge più e più volte, non grazie alla Fata Turchina, ma piuttosto grazie a uno misterioso spirito della foresta, Chimera, e a sua sorella Morte (entrambe doppiate da Tilda Swinton), che lo accompagna, insieme all’inquietante corte dei Conigli Neri, nel suo lugubre viaggio nell’oltretomba.
Come si vede, le licenze poetiche con cui Del Toro si è allontanato dall’originale letterario sono numerose: non ci sono il Gatto e la Volpe, né Mangiafuoco, piuttosto ci sono un conturbante e spietato Conte Volpe (Christoph Waltz), insieme alla sua scimmia Spazzatura (Cate Blanchett), e il temibile Podestà (Ron Perlman), padre di Lucignolo che vorrebbe fare di Pinocchio il perfetto “burattino” del regime; in questo contesto, però, proprio la piccola creatura intagliata nel legno rappresenta la capacità di non conformarsi, di essere se stessi, con la sua dirompente disubbidienza che, in qualche modo, lo rende simile a uno dei più grandi rivoluzionari mai raccontati, Gesù Cristo, a cui Pinocchio si paragona quando il suo sguardo si ferma su un crocifisso di legno. La sovrapposizione tra queste figure, che potremmo definire a cavallo tra religione, mito e letteratura, è stata sviluppata, pur tra innumerevoli controversie, già dalla critica letteraria, ma Guillermo del Toro ha proposto una visione sovversiva di entrambi i personaggi, intesi come dei rivoluzionari piuttosto che come emblemi di sacrificio salvifico, capaci di dominare vita e morte.
Dopo innumerevoli trasposizioni, dunque, alcune più aderenti al romanzo, altre al grande classico animato Disney del 1940, sembra proprio che Pinocchio abbia trovato con Guillermo del Toro una nuova, più moderna anima: il protagonista non appare un bimbetto capriccioso, un “monello toscano”, come è stato spesso definito, e la sua umanità si misura proprio nel suo essere “altro”, dal figlio desiderato o dal soldato ideale; potrebbe apparire un paradosso, forse, la scelta di una tecnica “antica” come quella del “passo uno” per esprimere questa modernità: pur con una precisa collocazione storica della vicenda, al contrario, l’animazione in stop motion conferisce alla narrazione il senso dell’universalità ed evoca efficacemente, grazie alla grande libertà creativa che consente agli artisti, mondi onirici e ultraterreni, con il prezioso contributo della colonna sonora firmata da Alexandre Desplat.
Per chi volesse approfondire gli aspetti più tecnici della realizzazione del film, che ha visto al lavoro ben tre team di burattinai -Shadow Machine (USA), Mackinnon & Saunders (Inghilterra), Guadalajara (Messico)- è disponibile, attualmente solo nella versione in lingua inglese edita da Insight Editions, il volume “Pinocchio: A Timeless Tale Told Anew”, ricco di bozzetti preparatori e illustrazioni, capaci di catapultare i lettori nel racconto senza tempo di Pinocchio: ancora una volta, dunque, il burattino rinasce a nuova vita per raccontare la sua -e la nostra- storia.