Non esiste una definizione che possa contenere o spiegare esaurientemente la scintilla creativa che anima, fin dall’esordio alla regia nel 2018 con “La terra dell’abbastanza”, la produzione dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo: romani, classe 1988, sono scrittori, sceneggiatori e registi, ma per poter muovere i primi passi nel mondo del cinema hanno dovuto lavorare duramente e nutrire i propri sogni -o incubi- con la determinazione degli autodidatti e la fatica di una gavetta tanto faticosa quanto proficua.
Dopo aver collaborato alla scrittura di “Dogman” di Matteo Garrone, la definitiva affermazione arriva con “Favolacce”, che nel 2020 vince l’Orso d’Oro per la Miglior Sceneggiatura al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, oltre che il Nastro d’Argento come Miglior Film: basterebbe il titolo di questa pellicola, che connota negativamente la parola “favola”, già di per sé ricca di sfumature ambivalenti, per capire quale sia l’umanità, ferita e rabbiosa, protagonista delle storie firmate dai D’Innocenzo, quali gli scenari in cui questa si muove, ovvero un mondo suburbano minato da povertà emotiva e materiale, oltre che dalla criminalità.
Dopo “America Latina”, che nel 2021 racconta la corrosiva incursione dei registi nei quartieri residenziali con uno scioccante Elio Germano nel ruolo di protagonista, i fratelli D’Innocenzo si cimentano con una miniserie, presentata in anteprima lo scorso febbraio nel luogo della loro consacrazione, il Festival Internazionale del Cinema di Berlino, nella sezione Berlinale Special: “Dostoevskij” arriva nelle sale italiane suddivisa in due parti, Atto I e Atto II, entrambe rilasciate nella settimana tra l’11 e il 17 luglio, ed è prodotta da Sky Studios con Paco Cinematografica e la distribuzione di Vision Distribution; gli episodi di “Dostoevskij” saranno trasmessi sui canali Sky entro la fine dell’anno.
Chi ritiene che la scelta di girare una serie rappresenti il tentativo di arrivare a un pubblico vasto attraverso una storia più “facile” rispetto alla durezza dei film, adatta all’eterogeneo pubblico delle piattaforme streaming, si sbaglia: i D’Innocenzo non tradiscono se stessi e, se possibile, rincarano la dose di cupezza e nichilismo che caratterizza la loro cifra stilistica con un thriller che, soprattutto nella parte finale, non mancherà di avvincere gli spettatori, trascinandoli in un vortice di repulsione. Protagonista della vicenda è il poliziotto Enzo Vitello, un sorprendente Filippo Timi con il volto segnato dalla magrezza -per il ruolo ha perso 15 chili-, ossessionato dall’operato del serial killer che firma i suoi delitti come “Dostoevskij”; l’assassino lascia accanto ai corpi delle sue vittime delle lunghe e erudite lettere, in cui racconta con allucinata poesia le proprie motivazioni e la propria visione della vita.
Vitello, che già opera in una landa desolata, prova per il serial killer sentimenti ambivalenti, ribrezzo, senza dubbio, accompagnato però da una sconcertante condivisione di pensiero, troppo sconvolgente da ammettere perfino con se stesso; Dostoevskij finisce per diventare una ragione di vita per il poliziotto, che decide di dare la caccia al “mostro” da solo, affidandosi alle proprie capacità e forze. Emerge, proprio dalla patologica fissazione per l’assassino, il tentativo di compensare i vuoti emotivi che tormentano Vitello, padre assente di una figlia adolescente, Ambra (Carlotta Gamba), con cui intrattiene un rapporto difficile e rarefatto.
Atmosfere fatiscenti, urbane e suburbane, e architetture paradossali, ispirate all’opera di M. C. Escher; ritmi lenti, soprattutto nella prima parte -Atto I- della serie; un protagonista perduto tra rimpianto, ossessione e inconfessabili pulsioni: impossibile non pensare a “True Detective” o ai gelidi scenari di molti noir del più profondo e cruento nord Europa, ma le narrazioni dei D’Innocenzo sono sempre così profonde, così stratificate, da contenere il seme della propria originalità, ben riconoscibile oltre le fonti d’ispirazione, oltre il bacino della cultura e sub-cultura popolare che raccontano. Non si dimentichi, del resto, che i fratelli-registi hanno firmato tra il 2021 e 2022 le sceneggiature di due film come “La ragazza ha volato” di Wilma Labate, in cui si racconta -senza pietà- lo stupro della giovanissima protagonista e le conseguenze della violenza in una famiglia incapace di reagire all’abuso, e di “Educazione fisica” di Stefano Cipani, durissima denuncia dell’ipocrisia della classe borghese, decisa, fino alle estreme conseguenze, a proteggere i propri privilegi.
“Dostoevskij” celebra il genere noir-poliziesco e, al contempo, lo riscrive, scuotendo il pubblico e offrendo al suo sguardo un’umanità annichilita e un mondo senza speranza: in parte, la serie può essere considerata una summa della poetica dei D’Innocenzo, declinata nei tempi narrativi di due Atti disturbanti, che spesso indugiano in dettagli raccapriccianti fatti di carne e sangue solo per evidenziare quanto le pieghe nascoste dell’animo nascondano segreti ancor più oscuri e indicibili di quelli dei corpi straziati che abitano. Una serie irresistibile, dunque, per chi abbia voglia provare a sondare quell’oscurità e non ne tema le conseguenze.