Il Muto di Gallura: quando il western contamina la tragedia

Arriva nelle sale di tutta Italia l'opera prima del regista Matteo Fresi prodotta da Fandango e Rai Cinema, con la collaborazione della Sardegna Film Commission

Sebastiano Tansu, il “muto”, interpretato da Andrea Arcangeli. 📷 Federico Botta

Sebastiano Tansu, il “muto”, interpretato da Andrea Arcangeli. 📷 Federico Botta

È la terra gallurese, aspra e bellissima, una delle protagoniste principali del film “Il muto di Gallura” di Matteo Fresi, insieme alla varietà linguistica del “gaddhuresu”, che riempie i paesaggi e conferisce un ritmo speciale, antico e insieme universale, alla narrazione: così la leggenda di Sebastiano Tansu, il “muto” dalla mira infallibile interpretato da Andrea Arcangeli, prende vita in un teatro scolpito dalla natura e diventa tragedia, che insanguina le mani e colora di rosso la terra.

La vicenda, tratta da fatti realmente accaduti, è ambientata a metà del 19° secolo nel paese di Aggius e a renderla famosa è stato, in particolare, il romanzo dello scrittore sassarese Enrico Costa pubblicato nel 1884, circa trent’anni dopo la conclusione della faida familiare al centro della trama; le gesta del “muto” narrate da Costa discordano sotto molti aspetti dalla realtà, così come il film, tuttavia entrambi i linguaggi, letterario e cinematografico, custodiscono il valore di una storia senza tempo, che esplora i lati più oscuri, primordiali dell’animo umano. Il regista Fresi, però, parallelamente alla sua opera prima racconta la “disamistade”, l’inimicizia tra i casati Vasa e Mamia con una sensibilità nuova, moderna, capace di coinvolgere anche il pubblico più giovane, certamente attratto da un antieroe come Bastiano, avvelenato dal desiderio di vendetta.

Lo stesso sentimento minaccia i riti gioiosi che, nello stazzo di Giunchizza, preludono a un matrimonio ormai stabilito e illuminano di promesse il futuro: gli strascichi di un’antica discordia, infatti, non tardano a turbare gli animi, perché i Vasa non possono perdonare ai Mamia la parentela con la famiglia Pileri, rea di uno sconfinamento di pascolo, e così l’odio prende rapidamente il sopravvento sull’amore, quasi che il passato sia un fardello impossibile da abbandonare per i promessi sposi. Il matrimonio viene annullato e il 19 marzo del 1850 si consuma l’incidente che dà inizio a una faida lunga 6 anni, segnata dal terribile talento del sordomuto Sebastiano Tansu, imparentato con i Vasa: con la sua mira infallibile il giovane compie una vera e propria mattanza degli avversari e da reietto, schernito dalla comunità per la sua diversità, si trasforma quasi in un essere soprannaturale, “non lo tocca il piombo, non lo ferisce il ferro” si dice di lui, che viene soprannominato “figlio del diavolo”.

Ad animare Bastiano è, soprattutto, la ferrea volontà di vendicare l’amato fratello Michele, caduto vittima della faida: con la stessa forza, l’amore per Gavina (Syama Rayner), figlia di un amico dei Vasa che gli concede ospitalità, gli fa sperare che, un giorno, potrà trovare redenzione e felicità. Nel 1856 le famiglie rivali stipulano una debole tregua e il destino di Bastiano si compie: se le vicende del personaggio sono forse note ai conoscitori del fenomeno del banditismo in Sardegna, di certo il film getta su Bastiano una luce nuova, quella dell’eroe solitario che, pur agendo per conto di una delle fazioni contendenti, è animato da un senso di rivalsa personale, non solo contro singoli avversari, ma contro un mondo ostile e respingente.

La scelta di non far interpretare il protagonista a un attore sardo (Andrea Arcangeli, il Roberto Baggio del film “Il Divin Codino”) si inscrive in questa lettura del personaggio, Bastiano è un “diverso”, un emarginato che all’improvviso, in un contesto violento e senza pietà, trova temporaneamente il suo posto nel mondo, salvo poi venirne beffato; la connotazione “western”, dell’eroe e della sfida, è forte e traduce la storia di Bastiano attraverso un’estetica accattivante, senza snaturarla: il modello di riferimento principale, infatti, resta quello della tragedia greca, dominata dalla vendetta, in cui colpa e espiazione si mescolano crudelmente.

Di certo la contaminazione tra generi e stili rappresenta un punto di forza del film, efficacemente espressa anche dalla colonna sonora curata da Paolo Baldini DubFiles, che interpreta in chiave elettronica la tradizione sarda: nella dissonanza si muove Bastiano, un giovane del 1850 che ben incarna il disagio di un ragazzo emarginato dei giorni nostri, costretto a gestire il peso di una rabbia che consuma. Il film, in definitiva, possiede il pregio di rispettare le tradizioni narrative più antiche del patrimonio mediterraneo e di tradurle, in gallurese, a vantaggio di un pubblico abituato a fruire di storie ai ritmi dello streaming: dopo una settimana di programmazione nei cinema della sola Sardegna, “Il Muto di Gallura” si è piazzato a ridosso dei dieci film più visti in Italia, segno che nell’isola ha attirato un pubblico vasto e eterogeneo. Dal 31 marzo la pellicola è disponibile nelle sale di tutta Italia: che questa storia, ambientata in un piccolo paese nel nord della Sardegna, sia destinata a travalicare confini, geografici e non solo?

Non a caso, del resto, Fabrizio De André nella canzone “Disamistade” -inserita nell’album “Anime Salve” del 1996-, si ispira alla faida tra i Vasa e i Mamia e racconta lo scontro tra le due famiglie come fosse una rappresentazione “in miniatura” dell’odio che attraversa le società di tutto il mondo, risolto in maniera inadeguata dall’autorità, che sia politica o religiosa: “Dev’esserci un mondo di vivere / senza dolore / Una corsa degli occhi negli occhi / a scoprire che invece / è soltanto un riposo del vento / un odiare a metà”.

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