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Un’infanzia di gioia e semplicità: dal “pincaro” a “sa murra”, come si divertivano i bambini sardi di una volta

di Raffaella Piras
11 Dicembre 2021
in Costume & Società, InSardegna
🕓 4 MINUTI DI LETTURA
313 13
Su pincareddu, o pincaro, la versione sarda del gioco della campana. ? Adobe Stock | nadezhda1906

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I bambini di ieri e i bambini di oggi, quante cose sono cambiate!

I piccoli di oggi sono figli dell’era digitale, sempre più impegnati e assorbiti dallo sviluppo tecnologico e dall’innovazione. Computer, televisione e videogiochi scandiscono la maggior parte del loro tempo libero, complici anche la minor sicurezza delle strade e la presenza, sempre più ridotta, di spazi verdi e aree gioco nelle nostre città.

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Eppure, fino alla metà del secolo scorso, erano proprio loro ad animare le strade e i vicoli trascorrendo le giornate in modo semplice, con tanti giochi da fare in gruppo e all’aria aperta. I nostri genitori e i nostri nonni hanno sperimentato cosa fosse il vero divertimento, si accontentavano di svolgere dei giochi semplici con i bambini del vicinato, a prescindere dall’estrazione sociale, rispettando poche regole di base e sfruttando le proprie abilità fisiche e la fantasia.

In Sardegna sono davvero tanti e vari i giochi con cui sono cresciute intere generazioni. Il primo a tornare alla mente è sa murra, il gioco della morra, conosciuto in tutta Italia ma considerato il gioco tradizionale della Sardegna. Si praticava in gruppi composti da due o quattro persone. Durante le partite i due partecipanti dovevano distendere velocemente le braccia e aprire i pugni delle mani per estrarre le dita, dopodiché dovevano gridare, velocemente e in modo ritmico, un numero superiore al numero delle dita che ciascuno mostrava per cercare di indovinare la somma dei numeri proposti da entrambi. Il numero massimo della murra era 10. Se nessuno indovinava la sfida continuava, chi alla fine indovinava conquistava un punto, lasciava da parte l’avversario perdente e continuava il gioco con un altro componente del gruppo, e così si andava avanti fino a raggiungere il punteggio stabilito e vincere l’incontro. Pur essendo stata proibita dalla legge perché considerata pericolosa, in realtà sa murra viene praticata ancora oggi in certe zone dell’Isola, soprattutto durante le sagre di paese.

Un altro gioco, tra i preferiti dai bambini, era su pincareddu, o pincaro, la versione sarda del gioco della campana. Consisteva nel tracciare un percorso composto da una decina di caselle numerate in fila, a parte un paio di blocchi composti da due caselle affiancate, e all’interno si lanciava un sassolino. Si decideva, in genere con la conta, il giocatore che doveva iniziare per primo lanciando il sassolino all’interno della prima casella e saltando con un solo piede su tutte le altre caselle, poteva infatti appoggiare entrambi i piedi e recuperare l’equilibrio solo dove c’erano le due caselle affiancate. Il giocatore doveva raggiungere la cima della campana, qui poteva girarsi e rifare il percorso a ritroso, sempre saltellando con un solo piede, fermarsi nella casella che precedeva quella dove aveva lanciato il sasso, raccoglierlo mantenendo l’equilibrio e terminare il percorso. Una volta che tutti i giocatori avevano effettuato almeno un giro, si ricominciava da capo con il primo giocatore che lanciava il sasso nella seconda casella, ovviamente qualora fosse riuscito a non perdere mai l’equilibrio o a non infrangere le regole, e si continuava così fino a lanciare il contrassegno sempre più avanti nella numerazione. Vinceva chi riusciva a posizionare per primo la propria pietra su tutte le caselle, completando il percorso di andata e ritorno. Ovviamente senza commettere errori.

Tipici giochi maschili erano su zacch’e poni e prontus cuaddus prontus. Per giocare a su zacch’e poni bisognava essere almeno in tre. Un primo giocatore, estratto a sorte, doveva dare le spalle ai compagni, mettere la mano sinistra sotto l’ascella e coprirsi gli occhi con la mano destra. Uno degli altri compagni dava un colpo alla sua mano sinistra, “sa zaccada”. Il colpito, girandosi rapidamente, doveva intuire dall’espressione dei compagni chi fosse l’autore del colpo. Se indovinava, il suo posto veniva preso da chi lo aveva colpito. Non c’era un vincitore finale, i bambini continuavano a giocare fino a quando non si stancavano.

Erano invece necessarie due squadre con lo stesso numero di partecipanti per giocare a prontus cuaddus prontus. I giocatori della prima squadra si disponevano in fila piegandosi in avanti e mantenendosi con le braccia alla vita del compagno che stava davanti, mentre i giocatori della squadra avversaria dovevano saltare uno dopo l’altro sulla groppa degli avversari per sbilanciare la fila. La squadra che cadeva a terra doveva formare la fila per sostituire gli avversari.

Le bambine si divertivano invece a giocare a su giogu de su sedazzeddu. Tutte le giocatrici, tranne una, dovevano tracciare a terra un cerchio disponendosi all’interno. La giocatrice priva di cerchio si dirigeva verso una delle compagne chiedendo di cederle il posto. Questa le diceva il nome di un’altra partecipante dove mettersi accanto ma, mentre si dirigeva dalla compagna indicata, le altre si mettevano d’accordo a cenni o con lo sguardo e si scambiavano i posti. La giocatrice al centro cercava allora di occupare uno dei cerchi vuoti, se riusciva nell’impresa un’altra restava di conseguenza fuori e prendeva il suo posto.

Questi e tanti altri giochi di una volta dovrebbero essere tramandati ai bambini di oggi. Sarebbe importante cercare di fargli scoprire un nuovo modo di rallegrare e riempire le loro giornate, rafforzare i legami sociali e sentire un senso di appartenenza ai propri luoghi, perché in fondo, anche se i tempi cambiano, la voglia di giocare dei bambini non cambierà mai.

Tags: bambinigiochigiogu de su sedazzeddupincaredduprontus cuaddus prontusSardegnazacch'e poni
Raffaella Piras

Raffaella Piras

“Presentalo brevemente così che possano leggerlo, chiaramente così che possano apprezzarlo, in maniera pittoresca che lo ricordino e soprattutto accuratamente, così che possano essere guidati dalla sua luce”. (Joseph Pulitzer)

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