Nuraghi, processioni, calore, sole, Maestrale: pensando alla Sardegna, è spesso inevitabile evocare alla mente specifiche immagini, che fanno parte di un mondo tanto ampio e variegato come quello della nostra isola. Così come vista, tatto e udito, anche l’olfatto è sollecitato da componenti uniche del territorio, che finiscono per travolgere totalmente il corpo, ma anche lo spirito. Tra tutti, il lentisco è sicuramente tra le più caratteristiche in quanto dopo averlo sentito per la prima volta, il legame con la terra sarda sedimenta il suo profumo nell’anima.
Tipicamente presente nella macchia mediterranea, il lentisco si presenta come una pianta dall’essenza tanto peculiare quanto adatta a vari usi, con diffusione assai ampia anche in Sardegna. Grazie alla capacità di adattarsi a condizioni climatiche poco favorevoli, esso è infatti molto presente nel territorio e riesce a vivere anche in luoghi impervi, come testimoniato dalla sua crescita fino a 400 o 500 metri di altitudine.
Amico del caldo e timoroso del freddo, il lentisco inizia il suo ciclo di fioritura intorno a marzo-aprile, dopo un inverno passato al riparo ma sempre preservando il suo aspetto di pianta sempreverde. Un elemento che sicuramente non passa inosservato ed è accompagnato anche da notevoli dimensioni, – che possono arrivare fino a 4 o 5 metri di altezza – ramificazioni intense, ma soprattutto cromie inconfondibili, che oltre al verde comprendono anche quelle dei generosi frutti detti “drupe”.Caratterizzati da forma tondeggiante con un solo seme, il loro percorso di maturazione segue quello dei fiori e si protrae dal periodo estivo all’inverno, quando il passaggio dal colore rosso al nero segnala che il processo è stato completato.
Proprio in concomitanza con questa fase, in passato i frutti del lentisco diventavano protagonisti di uno dei procedimenti più frequenti in Sardegna, ossia l’ottenimento del peculiare olio. Nonostante attualmente l’uso sia meno frequente a causa delle fasi di lavorazione complesse, fino al secolo scorso il liquido veniva impiegato per l’illuminazione, per curare ferite e soprattutto in ambito alimentare, dove chi non poteva permettersi il più costoso olio d’oliva se ne serviva per varie ricette, dalla frittura di “sas tsíppulas” – ossia i dolci del Carnevale – al condimento di minestre.
Un prodotto quotidiano essenziale, che si otteneva da un lungo processo di lavorazione preceduto dalla raccolta delle drupe, coincidente col periodo tra novembre e gennaio. Principalmente affidato alle donne, tale compito prevedeva lo sfregamento ramo contro ramo per far cadere i frutti dentro una cesta ed era seguito dalla pulitura delle bacche, le quali una volta separate le parti superflue venivano lasciate riposare qualche giorno in sacchi. Era poi il momento dell’estrazione dell’olio, basato prima sulla bollitura delle drupe – funzionale per farle salire a galla, ripescarle e metterle dentro un sacco di lino detto “sa sacchitta de linu de aulla” – e poi sulla spremitura (sa cracadura) attuata con mattarello, piedi nudi o sopra un masso, da cui si otteneva un liquido portato nuovamente in ebollizione per circa 3 ore e ripulito infine da altri fluidi, tra cui la schiuma formatasi in superficie.
Impegnativo, laborioso e concepito anche con qualche variazione, – tra tutti, è stato sperimentato nel tempo anche il procedimento “a freddo”, ossia con altri strumenti e senza l’uso di bollitura – il processo di ottenimento dell’olio rappresenta solo un tassello del più grande panorama di usi isolani del lentisco. Un tempo infatti altre sue parti venivano impiegate quotidianamente, dalla corteccia per ottenere carbone vegetale fino alle foglie, ricche di tannino e utilizzate per conciare le pelli.
Un ventaglio di abitudini presenti fin da tempi remoti, che rendono il lentisco un filo rosso nella storia identitaria sarda. Si ipotizza infatti che la lavorazione fosse nota fin dalla Preistoria, così come testimoniato dal rinvenimento a Barumini (SU) di una vasca calcarea, – ritenuta dall’archeologo Giovanni Lilliu strumento per macinare le bacche – nonché da elementi relativi alla fase romana e medievale, attestabili invece da alcuni ritrovamenti nell’area del Barigadu, ad Ardauli (OR), Neoneli (OR) e nei pressi del lago Omodeo. Un universo quindi non solo gastronomico e vegetale, ma anche storico, che arricchisce ulteriormente il profilo di una pianta con diverse denominazioni – lestìnku, su moddìttsi, listìnku, lostìnku, kèssa – ma sempre dall’unico e inconfondibile profumo, affascinante per i suoi conoscitori e non solo.