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Io Racconto: “Musoge – 1ª parte” di Simone Giusti

di Aurora Redville
28 Agosto 2020
in Libri
🕓 12 MINUTI DI LETTURA
45 3
Foto Fabien Huck | Pixabay

Foto Fabien Huck | Pixabay

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Bentrovati amici lettori,

per il nostro appuntamento di #ioraccontoaSH vi propongo un racconto dagli scenari apocalittici, un genere distopico che mi ha ricordato le ambientazioni del famoso film Strange Days o l’intramontabile Blade Runner.

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Avevamo già pubblicato un altro racconto dello stesso autore dal titolo “Io valgo cazzo!” e oggi vi propongo la prima parte di “Musoge” racconto diviso in due parti.

Simone Giusti, 43 anni, è uno specialista della parola e docente di comunicazione. Scrive racconti, romanzi, sceneggiature, spettacoli teatrali e tutto ciò che gli permette di far brillare la magia della parola. Fondatore di IdeaPower e del Portale della Coscienza, vive a Calcinaia con la compagna Denise e un gatto che un giorno è entrato in casa e ha deciso di vivere con loro.

Consiglio di leggere il racconto tutto d’un fiato con un brano che ben si sposa con questo testo e che fa da colonna sonora all’ultimo Blade runner 2049, Wallace di Hans Zimmer.

Se siete curiosi e volete conoscerlo meglio potete visitare il suo sito web.

Buona lettura
Aurora Redville

Musoge – 1ª parte

di Simone Giusti

«C’è una via che tutti noi dobbiamo percorrere, una strada buia e sconosciuta, ma una volta giunti là dove porta, dischiude la luce. Niente a che fare col divino o con la religione, niente di esterno, solo ciò che è in noi: il sorriso».

Chissà quante volte ho ripetuto nella mia mente le parole di Sullun, cyber poeta del Net. Non le avevo mai comprese, mai finora. Un tempo mi parevano solo belle e tristi, sì, dannatamente tristi; non so perché, ma era quella la sensazione che mi scatenavano allora… prima che riuscissi a capire.

Era notte. Le luci della città baluginavano sfumate, fantasmi colorati a intermittenza nella densa foschia vaporosa che avvolgeva New Venice. La pioggia scivolava sulla piccola finestra sigillata del mio monolocale. Era un loculo buio. L’olo sveglia lampeggiava sul soffitto il fascio laser azzurro. Segnava quattro ore e ventidue minuti dall’ultimo blackout che aveva colpito l’agglomerato abitativo R16, quell’ammasso di miniloculi modello living 5 che qualcuno aveva il coraggio di chiamare casa.

Non so per quanto tempo rimasi immobile seduto sul mio materasso in gomma schiuma con i gomiti poggiati sulle ginocchia, fissavo le gocce di pioggia percorrere vie parallele su quel vetro in plexiglass antiappannante, e intanto vagavo come un satellite intorno a un unico pensiero: farla finita.

Sospirai disilluso. Poi sogghignai irridendo me stesso.

Non ce la facevo, non avevo abbastanza fegato da premere quel grilletto. Maledizione!

Allontanai il cannone dalla tempia. Ci avevo provato così tante volte negli ultimi giorni che mi parve una routine priva di significato. Abbassai il cane della pistola e la poggiai sul pavimento di latex grigio e opaco davanti a me.

«Niente da fare, Randal», mormorai malinconico, «niente da fare».

Mi preparai uno dei miei cocktail preferiti: tre pasticche di allucinogeno sintetico Simprex disciolte in un bicchiere di vodka derivata dalla distillazione del gas Tebrenio dei giacimenti del nord. Era una bevanda micidiale che avrebbe potuto stendere per sempre un elefante (al tempo in cui gli elefanti esistevano ancora) ma che a un tossico come me non poteva far altro che regalare un sonno lungo e privo di sogni. Il risveglio sarebbe stato pessimo, ma in quel momento era l’ultimo dei miei pensieri.

Le ultime luci del giorno tramontavano fagocitate nel mare di vapori e nebbie che mai lasciavano i canali di New Venice, quando mi svegliai. Avevo dormito per più di dodici ore senza sognare, barcollai fino alla finestra e detti un’occhiata fuori.

Grattaceli immensi avvolti in spirali contorte, torri specchio, selve di ciminiere a far da sfondo a quel groviglio di tecnologia postindustriale morente. Più in là, piramidi in Aluminium X svettavano tra i colossi chimici delle multinazionali, giganteschi globuli bioserra si innalzavano a oltre duecento metri sopra il mare di immondizia che galleggiava tra le vie d’acqua putrida della città.

New Venice non aveva niente a che fare con la Venezia italiana, quella ormai era divenuta un parco turistico subacqueo da oltre un secolo, da quanto era stata inghiottita dall’innalzamento degli oceani. New Venice sorgeva là dove un tempo c’era stata la città di New Orleans. Dopo che l’uragano dell’Ottantasette aveva spazzato via ogni cosa là nel profondo sud, a qualche idiota del governo degli Stati Federati delle Americhe era venuta la cattiva idea di rifondare la città con quel nome del cavolo.

Non c’erano strade, ma solo canali d’acqua percorsi notte e giorno da idroscafi a turbogetto, gondole in fibra di carbonio, surf bike a celle energetiche e hovercraft dalla carlinga affusolata. La possibilità di camminare lungo quei canali e i collegamenti tra gli agglomerati urbani della zona vecchia e le torri modulari, erano garantiti da un intricato sistema di pedane, passerelle, camminamenti in fiber plast a ultra tenuta.

Quello era il dedalo urbano dove sopravvivevo da oltre due anni, dove mi guadagnavo la giornata facendo l’unica cosa che si addiceva ad un ex soldato ed ex poliziotto (e forse anche ex essere umano) come me: il cacciatore da vicoli, un tempo detto investigatore privato.

Fissai il bagliore rossastro del crepuscolo svanire nel buio della notte tutta luci e tenebre della città. Poi il bper della posta digitale attirò il mio sguardo sul monitor del comlink.

«Quel tipo non si dà per vinto», borbottai con la bocca ancora impastata dal cocktail allucinogeno.

Il mio cliente, anzi, quello che aspirava a diventarlo, si era presentato dodici ore prima nel mio loculo abitativo con un’offerta di lavoro. Non era un umano, questo lo avrebbe compreso persino un cieco. Era un clone biosintetico K6-type, uno dei modelli più vecchi, riconoscibili per la pelle plastica bianca e senza imperfezioni, e i globuli oculari composti da migliaia di microcelle di light gel azzurro. Non mi aveva detto il suo nome, e con quella sua voce asessuata, né maschile né femminile, mi aveva chiesto di ritrovare una persona scomparsa.

«Non è il momento adatto», avevo blaterato con il mio solito modo arrogante. Avevo in testa di farla finita e prendere un incarico avrebbe solo rallentato l’agonia.

«È importante, signor Rygel. La pagherò bene.»

Accendendomi una chawa d’alga, gli avevo fatto capire che non erano i soldi la mia principale preoccupazione. Quando però mi aveva detto di esser disposto a pagare diecimila in contanti, bè, devo ammettere che ebbi un attimo d’esitazione.

Se n’era andato convinto che avrei accettato il lavoro, lasciandomi quel poco che sapeva del tizio che avrei dovuto scovare in questo buco di città. Si chiamava Musoge (nome di merda, avevo pensato) e di lui non si sapeva niente, neanche che aspetto avesse o se fosse uomo o donna. Ebbene, forse questa non era la prima preoccupazione per un clone biosintetico androgino come il K6. L’unica traccia che avevo, eccetto quel nome del cavolo, era una scatola di cerini plastici avvolti in fibre di cera sintetica con il marchio tridimensionale del club Nightlife, un ricettacolo di prostitute e balordi della zona ovest di New Venice. All’interno c’era scritto il nome di una donna, presumibilmente una spogliarellista (che con tutta probabilità prolungava spesso il suo orario di lavoro per intrattenere i clienti) si chiamava Kate.

Nel messaggio sul comlink appena arrivato il K6 mi offriva il doppio per accettare il lavoro. Ventimila? Bella cifra, pensai. Inoltre diceva che per avere la taglia, il lavoro doveva essere portato a termine entro mezzanotte… Una follia, mancava solo una manciata di ore e avevo poche tracce da seguire. Forse quell’organismo artificiale era convinto che fossi il migliore; magari era vero, ma io non ci credevo più.

Sospirai, e mi fecero male i polmoni. Avevo detto che i soldi non mi interessavano… non ero poi un tipo così sincero. Ventimila erano tanti, troppi per rifiutare. Così non ci pensai un attimo e digitai la mia risposta sulla consolle: OK.

Uscii in strada che era già notte fonda. Qui a New Venice non c’era alba e tramonto, ma solo un rapido passaggio tra la luce soffusa del breve giorno e la cupa tenebra irradiata dai colori sfumati delle insegne al fluoritubolar della notte. Il club Nightlife sorgeva dalla parte opposta della città, così presi un anti-G taxi; non era il mezzo più economico, ma avevo poco tempo. Quel veicolo scivolò rapido tra i grattaceli, i casermoni sul confine sud, poi costeggiò le baraccopoli dei rubmen sorte a casaccio sulle immense montagne di rifiuti che la città vomitava ogni giorno. La città dall’alto era bella e tetra, luminosa e cupa, sogno e incubo allo stesso tempo con le sue contraddizioni illuminate dalle migliaia di fasci colorati degli anti-G che solcavano il suo nero e denso cielo di una notte lunga una vita.

Il mio impianto orario sottocute segnava le 18:47 quando entrai nel Nightlife. Il barista, una montagna di carne pallida e sudaticcia avvolta in una canottiera in fibra artificiale stretta e lurida, mi disse che il locale era ancora chiuso. Non lo considerai e lui continuò a lucidare il distributore di surrogato di alcol in finto ottone.

«Sto cercando una certa Kate.» Mi sedetti davanti a lui su uno sgabello in plexiglass trasparente percorso da fibre luminol rosse.

Mi guardò con l’unico occhio che aveva, il destro. Fece una smorfia disgustosa con quel suo muso da cane rabbioso con la barba di tre giorni e i capelli precocemente ingrigiti, luridi e appiccicaticci.

«Non conosco nessuna Kate», ringhiò.

Non ero un tipo a cui piaceva perder tempo. Il locale, un buco avvolto nell’oscurità riverberata dalle luci rosse delle insegne al luminol, era deserto. Così estrassi il cannone dalla fondina sotto l’impermeabile antistrappo e gliela puntai alla radice del naso.

«Sto cercando una certa Kate», dissi con tono più duro.

Una goccia di sudore scivolò sulla fronte pallida del tipo. Il labbro inferiore tremò. Sollevò la manona e mi indicò un corridoio che si apriva alla mia destra, chiuso soltanto da un fascio laser-door verdastro. Lo ringraziai beffardo, rinfoderai la pistola e attraversai il varco di luce.

Ero dentro l’alcova del Nightlife, lo capii dai gemiti.

Nel lungo corridoio si aprivano decine di porte laser attraverso cui si vedevano puttane del Nightlife impegnate a trattenere gli ospiti per pochi crediti digitali. Non era una novità per me, anch’io ero venuto in posti del genere qualche volta negli ultimi due anni. Un tempo ero stato un marito e un padre, adesso ero soltanto un balordo che non aveva i coglioni per aprirsi un buco in testa e non pensarci più.

Avanzai lentamente tenendo il pugno stretto attorno al calcio del cannone. Mi fermai di colpo sentendo un grido provenire dall’ultima stanza a destra. Sapevo riconoscere quando qualcuno strillava di dolore.

Corsi estraendo la pistola ed entrai senza indugio. Un balordo dalla schiena imponente, da cui sbucavano circuiti cinesi d’importazione, teneva una donna imprigionata sotto di sé, le stringeva i polsi con una mano e con l’altra la picchiava. Ringhiava come una bestia feroce. Il fluoritubolar scarlatto bagnava tutto di un alone di brutalità.

«Ehi, stronzo, datti una calmata!», dissi puntandogli contro il cannone.

Quel bisonte si voltò; era persino più brutto del barista. Era un russo-cinese, un incrocio di razze che aveva dato origine a un colosso biondo con gli occhi a mandorla. Aveva un fisico potenziato in laboratorio con impianti cibernetici di seconda scelta. A colpo d’occhio lo giudicai come un ex combattente delle guerre coreane finito qua a New Venice con un contratto da mercenario per una delle compagnie biochimiche della zona.

«Vatti a sfogare da un’altra parte, coglione!» Arricciai la bocca in un ghigno sarcastico. «Non vorrai mica farmi sprecare un proiettile! I miei cuccioli sono a potenziamento magnetico. Costano una cifra… ma fanno male.»

Era un colosso idiota, ma forse non così tanto da farsi ammazzare in quel cesso di posto. E così scese dal letto e se ne andò ringhiando in russo-cinese roba incomprensibile.

La ragazza non era male, ma conciata in quel modo mi faceva soltanto pena.

Era giovane, chissà se arrivava a vent’anni: mora, aveva capelli lisci e lunghi, un volto magro con zigomi e mento che seguivano la moda, sporgenti ma non troppo, forse il risultato di una bio scultura. Gli occhi erano neri e grandi, dal taglio nordeuropeo, il naso dritto e la bocca ben proporzionata. Purtroppo quel bel lavoro di biomodelling era stato rovinato dalle mani pesanti del circuitato. Aveva l’occhio sinistro pesto, il labbro inferiore gonfio e un rivolo di sangue sgorgava dal nasino. Si stringeva sotto un lembo di lenzuolo strappato.

«Conosci Kate?»

Ansimò impaurita.

«Ehi, non ti voglio far male, voglio solo parlare con Kate.» Rinfoderai il cannone.

«Che vuoi da lei?», domandò con la voce rotta dai singhiozzi della paura.

Non era necessario essere un investigatore per capire che era lei la Kate che cercavo. Così le misi il mio impermeabile sulle spalle e mi sedetti sul materasso in tempo schiuma.

Mi massaggiai il ginocchio sinistro, quello con la rotula plastica impiantata; mi faceva dannare per l’umidità della sera. Poi, le chiesi se conosceva un certo Musoge. I convenevoli li lasciai per la conversazione successiva.

Kate abbassò gli occhi. Cercai di mantenere il distacco immaginandomela a irretire i clienti, ma adesso che la sua barriera professionale era crollata mi appariva così umana e disperata. Avevo un pugno nel petto e il fiato mi mancava.

«Perché fai questo lavoro?»

Sollevo gli occhi. Erano lucidi e tremanti. «Tutti dobbiamo sopravvivere.»

Inghiottii. Non c’era niente di più vero. In una frase quella piccola aveva colto in pieno il problema dell’umanità. Neanche i più ricchi e potenti sapevano cosa volesse dire vivere davvero, tutti ormai sopravvivevano in questa giungla di belve feroci, tutti come animali solitari in un’esistenza più cupa della notte priva di luna.

Forse fu perché aveva bisogno di sfogarsi, o forse fu solo perché la mia faccia era la più umana che aveva visto qui a New Venice (e questo la dice tutta sulla razza disumana che eravamo diventati noi uomini, un’assurdità, se ci si pensa bene) ma quella ragazza mi raccontò la sua storia.

Era originaria del nord di Europoli, distretto Liberty Paris. Il suo vero nome era Catherine Sahar, era istruita, cresciuta in una famiglia perbene delle città intermedia, avviata a una vita piatta senza luci né ombre. Ma poi aveva perso tutto; il padre era stato colpito da un cancro fulminante al colon dovuto al suo lavoro nel laboratorio di fisica nucleare sperimentale di una grossa compagnia eurasiatica. Sua madre non aveva retto al contraccolpo e si era data agli allucinogeni sintetici, proprio come me, ed era morta tre anni dopo. Lei era rimasta sola, il governo le aveva tolto la casa per inadempienze contributive, et voilà! Il mondo delle città accoglieva chi produceva e consumava… tutti gli altri erano una scoria e niente più. La Zona Esterna era piena zeppa di gente con una storia come la sua, e io, a pensarci bene, dovevo reputarmi fortunato.

Fine prima parte

Tags: Aurora RedvilleIo RaccontoioraccontoaSHraccontiSimone Giusti
Aurora Redville

Aurora Redville

Scrittrice, bookinfluencer, blogger e autrice del romanzo “L'effetto Grant”. Nata e cresciuta in Sardegna, vive in Valsesia in una casa ai confini del bosco con il compagno, i due figli e il suo cane Ohm. Le sue più grandi passioni sono la scrittura, il mare, la pittura e il cinema. Tutto è possibile è il mantra che si ripete ogni giorno.

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