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Io Racconto: “Musoge – 2ª parte” di Simone Giusti

di Aurora Redville
4 Settembre 2020
in Libri
🕓 11 MINUTI DI LETTURA
44 4
Foto Yann Lecointre | Pixabay

Foto Yann Lecointre | Pixabay

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Bentrovati amici lettori,

per il nostro appuntamento di #ioraccontoaSH vi propongo la seconda parte del racconto “Musoge”, pubblicato venerdì scorso, potete leggere la prima parte al link seguente.

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Una storia dagli scenari apocalittici, un genere distopico che mi ha fatto pensare a tutti i futuri possibili.

Le parole nascono dalla penna di Simone Giusti, 43 anni, specialista della parola e docente di comunicazione. Scrive racconti, romanzi, sceneggiature, spettacoli teatrali e tutto ciò che gli permette di far brillare la magia della parola. Fondatore di IdeaPower e del Portale della Coscienza, vive a Calcinaia con la compagna Denise e un gatto che un giorno è entrato in casa e ha deciso di vivere con loro.

Consiglio di leggere il racconto tutto d’un fiato con un vecchio brano che ha fatto la storia della musica, Rain dei The Cult.

Se siete curiosi e volete conoscerlo meglio potete visitare il suo sito web.

Buona lettura
Aurora Redville

Musoge – 2ª parte

di Simone Giusti

Avevo perso Vivian, mia moglie, e Thomas, mio figlio, due anni prima in un assurdo incidente industriale. Un hyperzepplein della Syntematic-France era precipitato sul quartiere residenziale di Charlotte dove abitavamo. La catastrofe era stata terribile con più di centocinquanta famiglie distrutte in pochi secondi. L’assicurazione mi aveva rimborsato (parola disgustosa da usare in questo caso) per il danno subito. Trentamila per mia moglie e quindicimila per mio figlio. Già, Vivian aveva da poco perso il lavoro e a trentacinque anni non era più considerata produttiva, mentre Thomas aveva solo sette anni, un’età in cui, secondo il cinico sistema della società moderna, i genitori avevano ancora investito poco nell’istruzione dei figli da poter pretender un risarcimento più alto. Che schifo!

Ma questa era la società nata dalla vecchia cultura del consumismo senza freni.

Quella sera, uscendo dal Nightlife, mi promisi che non avrei più frequentato posti del genere. Se proprio in futuro non avessi saputo trattenere i miei impulsi sessuali, avrei noleggiato un software di virtual-sex. Mai più avrei avuto a che fare con il commercio della prostituzione, una tratta degli schiavi postmoderna.

Avevo messo Kate su un anti-G taxi diretto verso la stazione dei treni Comet. Le avevo scaricato sul conto digitale i tremila che avevo sul conto facendomi promettere che avrebbe intrapreso una vita migliore. Non era riuscita a ringraziarmi, aveva singhiozzato e pianto come una bambina, e in fondo lo era.

Avevo fatto una buona azione e questo mi fece sorridere. I muscoli della faccia mi fecero male, non ero più abituato a quell’espressione da troppo tempo.

Camminai tra la calca dei pedoni che affollavano le strette passerelle e i camminamenti sospesi sulle vie d’acqua della città per raggiungere Asiantown, il quartiere asiatico. Kate mi aveva detto che conosceva un tale, un suo cliente saltuario, che aveva un nome simile a Musoge. Non era certa che si chiamasse così, ma la certezza per me era solo una stupidaggine inventata dai potenti per prenderci in giro.

Mi aveva detto che era un J-tek, un tecnico giapponese che lavorava come chimico per una grossa multinazionale petrolchimica con sede qui a New Venice. Pensai che doveva trattarsi della Green Corporate, nome assurdo per un colosso dell’inquinamento globale, e non fu difficile per me, un esperto dello squallore dei bassifondi, immaginare dove potesse vivere un tipo del genere.

Raggiunsi Asiantown che erano già le dieci passate. Mi ero fermato a un chiosco tailandese per mettere qualcosa sotto i denti; certo, la zuppa di meduse non è che fosse il mio forte, però perlomeno non era l’insipido cibo plastico che mangiavo di solito. Vagai per i vicoli sospesi di quella città nella città, un quartiere sporco e lurido con vecchi palazzi scalcinati sormontati da strutture in ferro arrugginito e pannelli in vetro plastico corroso dalle piogge.

Sopra di me sventolavano panni stesi alle finestre a fianco di parabole radio-laser, e più in alto immagini olografiche proiettate sul nero sfondo del cielo e draghi serpentiformi dipinti sui muri scrostati. Sotto, nei canali neri che facevano da specchio alle luci colorate delle insegne, vagavano lunghe e anacronistiche canoe coreane in giunco, spinte da vecchi motori a olio combustibile, galleggiavano brutte catapecchie di plastica e canniccio intrecciato su bidoni in policarbonato blu e giallo, e scorrazzavano miniscooter d’acqua con propulsione all’idrogeno sintetizzato.

Antico e moderno, medioevo e futuro in un mix di luci e colori, ombre e grigiore.

Non era ancora tardi e le passerelle brulicavano di musi gialli che blateravano di continuo intorno alle migliaia di mercatini che proliferavano un po’ dappertutto. Un groviglio caotico di anime in mezzo al continuo mutare di insegne al fluorogel e cartelli con ideogrammi dipinti a mano come duemila anni fa, immerse tra vampate di caldo sbuffate dai vecchi condizionatori e vapori di pesce fritto pescato in quei canali velenosi che puzzavano di marcio.

Chiesi in giro se qualcuno conosceva un certo Musoge, ma nessuno seppe darmi una risposta attendibile.

Dopo un’ora persa in quel modo mi ero già demoralizzato. Ero in un vicolo cieco, nessun altro indizio e quel Musoge era un fantasma in un mare di oscurità. Presi una chawa dal pacchetto, era l’ultima. Un coreano con un cappello di paglia e anfibi con fibre luminol a illuminare i passi mi urtò facendomela cadere. Non ero un tipo fortunato e la sigaretta passò come un proiettile in uno dei buchi esagonali della passerella cadendo in acqua.

«Merda!»

Avrei spaccato il muso a quella testa di cazzo, ma purtroppo era già sparito tra la folla. Scesi dalla passerella giù per una scala a pioli e seguii la sigaretta trascinata via dalla corrente. Era l’ultima che avevo e poi le chawa erano costose e io, se non risolvevo il caso, non avevo più un soldo. Raggiunta la passerella al livello più basso, per fortuna quasi deserta, vidi una mano sporgere da un angolo poco più avanti e prendere la sigaretta dall’acqua.

«Brutto figlio di puttana!», sparai tra i denti.

Scavalcai un ubriaco e due tossici che si facevano la quotidiana dose di morte, e svoltai l’angolo. La mia chawa era stretta in mano da un bambino di non più di sei o sette anni che tentava di asciugarla con il fiato.

«Che cazzo fai, marmocchio!»

Quel bambino la nascose tra le mani e tentò di fuggire. Lo afferrai al volo per il colletto della maglia. Cominciò a gridare scalciando come una lepre presa al laccio. Cercai di calmarlo, ma non servì a niente. Poi dissi che poteva tenere la sigaretta e gli promisi che non gli avrei fatto niente. Così si calmò. Mi guardai intorno per vedere se avessi attirato l’attenzione, ma da queste parti la gente se ne fregava di tutto. E a chi poteva interessare delle sorti di un ragazzetto dai tratti occidentali?

Lo lasciai e mi piegai sulle ginocchia per parlargli dalla stessa altezza.

Cazzo! Digrignai i denti per la fitta di quella dannata rotula impiantata.

Mi disegnai in faccia un sorriso e gli chiesi se avesse intenzione di fumarla. Lui mi guardò con tondissimi occhi nocciola e disse che l’avrebbe venduta; ci poteva guadagnare così tanto per comprarsi un pasto decente senza esser obbligato a frugare tra l’immondizia in cerca di qualcosa di commestibile.

«Tu fumi?», mi chiese.

«Fumavo, fino a pochi minuti fa», biascicai cercando di fare il simpatico… ma forse non mi veniva tanto bene.

Il ragazzino mi guardò di sbieco, poi rise mostrando i denti bianchi. Non era un figlio di qualche rubman, loro non avevano denti del genere. Gli chiesi se avesse una casa, una famiglia, qualcuno da cui tornare. Scosse la testa chinandola in avanti intristito. Mi disse che era rimasto solo al mondo.

E che cazzo! pensai, due storie da lacrime in una sola notte. Che culo!

Solita storia da ventiduesimo secolo. Il padre non lo aveva mai conosciuto, era morto in missione durante le guerre mediorientali. La madre era morta per il male del millennio, colpita da un cancro al polmone con metastasi sparse un po’ dappertutto. Lui si chiamava Toby, diminutivo di Tobias; era di origine europolitana ma era nato e cresciuto qui a New Venice. Nessuno si era occupato di lui eccetto l’orfanotrofio dell’esercito di U.S. Megacity. Ma quello era un campo di concentramento per piccole reclute da lobotomizzare per farne dei combattenti cibernetici, così era fuggito. Da tre mesi vagava solo per i bassifondi mangiando rifiuti e dormendo dove capitava. Era tanto sporco che i capelli biondi parevano neri, puzzava come un uomo ratto ed era vestito di stracci… mi fece pena. Eravamo già a due per quella sera.

Tornai a casa, o meglio, in quel freddo e minuscolo loculo in compagnia di Toby. Era mezzanotte in punto; il tempo era scaduto e il caso Musoge era ormai acqua passata.

«Addio ventimila», mormorai corrucciato oltrepassando la soglia di metallo del mio cubicolo.

Ero nervoso e imprecai maledicendo il cigolio della spiro porta che si chiudeva dietro di me. Presi una confezione di rotoli di formaggio sintetico Krouf dal mio frigogel, la scaldai nel forno a induzione e la diedi a Toby. Mangiò quella merda con gusto… povero ragazzo.

Lui aveva trovato un po’ di felicità… io no! Era la prima volta che non chiudevo un caso, e l’amaro sapore dell’insuccesso non mi piaceva affatto. Mugugnai incazzato. Poi ci pensai su. In fondo, se si toglieva di mezzo l’orgoglio, non era stata una giornata tutta da buttare.

Chi se ne frega di Musoge e di quel clone caca soldi. Fanculo tutto.

Toby era contento di quel poco che aveva, rideva, rideva con gli occhi; mi fu d’insegnamento. Sospirai accennando un sorriso. Avevo salvato due anime, lui e Kate, dalla fine più oscura: essere divorati dalla spietata società del ventiduesimo secolo, l’età delle vane illusioni. Dovevo ritenermi soddisfatto.

Mi sedetti sul letto e guardai fuori dalla finestra. Aveva appena cominciato a piovere, proprio come tutte le sere. Estrassi la mia pistola e la fissai per un po’. Mi resi conto che non l’avrei mai più puntata contro di me. La mia vita aveva ancora un senso, non ero utile solo a me stesso, ma anche agli altri.

Proprio come quando c’erano ancora Vivian e Thomas con me, pensai arricciando la bocca in un malinconico sorriso.

In quel momento il biper del comlink trillò. Aprii il messaggio, era ancora il K6. Stavo per mandarlo a farsi fottere quando l’occhio mi cadde sulla cifra lampeggiante in fondo: cinquantamila. Non riuscii a trattenere un’imprecazione tra i denti e lessi la comunicazione.

Il K6 mi ringraziava per aver ritrovato Musoge, e mi informava di aver appena provveduto al trasferimento sul mio conto di ben cinquantamila crediti, più altrettanti sul conto personale appena aperto di Tobias Muller, il ragazzetto che avevo trovato ad Asiantown. Rimasi sbigottito, non ci capivo un bel niente in quello che era successo. Di Musoge neanche la traccia, non sapevo nemmeno come fosse fatto; eppure quel clone biosintetico mi aveva pagato più del doppio rispetto al pattuito! E che ne sapeva lui di Toby?

Il monitor del comlink tornò a essere nero e lucido dopo che il messaggio fu archiviato in automatico dal processore della consolle. Vidi riflesso il mio volto inciso da un’espressione idiota di stupore. Mi strofinai il mento con la barba lasciata crescere incolta da molti giorni, poi toccai la fronte proprio sotto l’attaccatura dei capelli scompigliati, sfiorando la cicatrice più grossa che avevo, un ricordino di guerra. Solo in quel momento capii. Non so perché ebbi quell’intuizione, forse fu solo un caso, forse fu qualcuno a mettermela in testa, o forse fu solo il risultato di tanti anni passati a investigare su casi così assurdi da fare il callo a quelle situazioni surreali. Presi un pezzo di plasti carta e ci scrissi sopra Musoge, poi lo guardai riflesso nel vetro del monitor. Lessi egosuM, quindi Ego sum… era latino e significava: io sono, cioè, sono io!

Già! Tutto era chiaro!

Non era un fantomatico J-tek che in quella notte umida avrei dovuto ritrovare, ma ero io, era la mia anima perduta quella da afferrare per il bavero prima che sprofondasse nella tenebra più completa dell’autodistruzione.

Quel K6 mi aveva guidato per mano attraverso i bassifondi lungo la via della redenzione. Ma ero stato io col mio libero arbitrio a scegliere quale cammino intraprendere. Be’, avevo scelto quello giusto, sorridere alla vita, e avevo ottenuto la luce, la mia ricompensa. Ora con quei soldi potevo disintossicarmi e ricominciare a vivere, a vivere veramente, non più solo sopravvivere in questo zoo di tecno-follia chiamato società.

Sorrisi. Fu un riso sincero, salito dal profondo, fiore dai petali di cromo di sole magnetico sbocciato nell’animo.

Com’è strana la vita, a volte si percorre la via opposta senza rendersene conto, pensando addirittura che sia quella giusta. Questo è un mondo capovolto, sta a noi raddrizzarlo.

In seguito mi domandai più volte chi o che cosa fosse quel clone biosintetico K6-type. Un’entità aliena, un angelo cibernetico, un umanoide dall’intelligenza artificiale che aveva superato i confini del comprensibile, che aveva ben chiaro ciò che l’uomo non riusciva neanche a intuire, costretto a vagare come un cieco in un mondo di luce… Ebbene, a quella domanda non seppi mai dare una risposta, proprio come nessuno seppe mai chi fosse quel cyber poeta del Net dal nome così strano. Ma non era importante sapere chi o che cosa fosse, era fondamentale comprendere le sue parole. E io le avevo comprese.

Grazie, Sullun, Nullus, tutto, ogni cosa… o solo niente.

Tags: Aurora RedvilleIo RaccontoioraccontoaSHraccontiSimone Giusti
Aurora Redville

Aurora Redville

Scrittrice, bookinfluencer, blogger e autrice del romanzo “L'effetto Grant”. Nata e cresciuta in Sardegna, vive in Valsesia in una casa ai confini del bosco con il compagno, i due figli e il suo cane Ohm. Le sue più grandi passioni sono la scrittura, il mare, la pittura e il cinema. Tutto è possibile è il mantra che si ripete ogni giorno.

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