Nel panorama sempre più affollato della narrativa contemporanea, “Il ponte vermiglio” di Valeria Ricotti si distingue come un romanzo capace di mettere al centro la trasformazione interiore, intrecciando con equilibrio scienza, intuizione e spiritualità. L’autrice, al suo debutto nella narrativa, costruisce una storia in cui il cambiamento non è solo tematica ma anche struttura, linguaggio e direzione del cammino narrativo.
Il protagonista, Andreas, è un biologo quarantenne che vive a Londra, la stessa città dove l’autrice ha stabilito la propria dimora. Quando lo incontriamo, Andreas è immerso in un’esistenza che si sta sgretolando: lavoro opprimente, relazioni instabili, senso di vuoto crescente. In questo contesto arriva un sogno, un’immagine enigmatica che lo scuote nel profondo. È il primo segnale di una crepa interiore che, anziché distruggere, apre uno spazio nuovo.
L’incontro con Carol, figura al confine tra il reale e l’archetipo, segna l’inizio di un viaggio. Carol è scienziata, ricercatrice, ma anche guida spirituale, presenza magnetica che accompagna Andreas verso un’isola remota dove si studiano piante medicinali. Lì, isolato dal mondo urbano, il protagonista si trova immerso in un contesto che diventa metafora e specchio della sua stessa ricerca: guarire le ferite non solo del corpo, ma dell’anima.
Il romanzo si muove su piani intrecciati: il viaggio geografico si intreccia a quello psicologico, le relazioni esteriori si riflettono in quelle interiori. Ogni incontro sull’isola sembra avere una funzione simbolica, come se ciascun personaggio rappresentasse una tessera della mappa interiore di Andreas. Il lettore è invitato a osservare, più che a giudicare; a sentire, più che a spiegare.
Valeria Ricotti, classe 1983, è una figura eclettica e multidisciplinare. Nata a L’Aquila, vive a Londra dove ha costruito un percorso professionale nel campo della ricerca biomedica e dell’imprenditoria biotech. Ha lavorato allo sviluppo di terapie per patologie rare e oggi è CEO di due startup britanniche innovative, mentre collabora anche con l’UCL su progetti d’integrazione tra intelligenza artificiale e medicina. Il suo romanzo nasce proprio da un’esigenza di superamento dei confini disciplinari, come lei stessa racconta nell’intervista che ho avuto il piacere di raccogliere.
“Scrivere per me è stato un modo per dare voce a ciò che non trovava spazio nei dati scientifici — le intuizioni, le emozioni, le domande senza risposta”, ci racconta Valeria. “Il ponte vermiglio è nato in un momento in cui la mia identità professionale non bastava più a contenere tutto ciò che avevo da dire.”
Il personaggio di Andreas — ci rivela l’autrice — non è ispirato a una persona reale, ma rappresenta una parte del suo mondo interiore. Lo stesso vale per Carol, descritta come “una presenza intuitiva, un sapere sottile che arriva senza preavviso”. Non opposti, ma poli che danzano in cerca di integrazione.
Al cuore di questo lavoro si trova una riflessione sul significato autentico della cura, che ha scelto di esplorare non solo in laboratorio ma anche attraverso la parola scritta. Non è un caso che l’isola — luogo simbolico per eccellenza — diventi anche terreno di indagine botanica: la natura qui non è sfondo ma parte attiva del processo trasformativo.
Il romanzo è accompagnato da un progetto musicale originale, “Dragon’s Eyes”, registrato agli Abbey Road Studios e realizzato in collaborazione con la BBC Concert Orchestra. Un’estensione artistica che ribadisce l’intento multidimensionale dell’autrice, attraverso la sua piattaforma creativa “Shironeko”, spazio indipendente dedicato a progetti liberi da convenzioni.
“All’inizio cercavo di separare scienza e spiritualità”, racconta Valeria, “ma oggi vedo solo ponti. Per me, sono strade diverse per arrivare alle stesse domande fondamentali.”
Come lettrice e come donna in cammino, ho percepito nel romanzo un’eco intima e riconoscibile. La scelta dell’isola come luogo di rigenerazione mi ha colpita profondamente: forse perché mi ha ricordato la mia Sardegna, con i suoi silenzi carichi di senso e il tempo che scorre secondo un altro ritmo. “Il ponte vermiglio” non cerca di spiegare o risolvere, ma di aprire. È un libro che accompagna, che invita al confronto con la propria fragilità senza giudizio.
È, in fondo, un attraversamento. Un invito a rallentare e ascoltarsi. A riconoscere, come scrive Valeria, che “la vita è fatta di ponti da attraversare, anche quando sembrano sospesi nel vuoto”.
Lo consiglio a chiunque si trovi in una fase di transizione. A chi sente che qualcosa si sta rompendo, ma non sa ancora cosa potrà nascere da quella frattura. Perché a volte, come dice una delle frasi più luminose del romanzo, “tra le crepe del cuore nasce la luce del cambiamento”.
Buona lettura
































