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Dismorfofobia: social e filtri di “bellezza”, un pericolo per la percezione di sé

Nati come un divertimento, i filtri oggi sono una vera e propria ossessione di ricerca della perfezione rispetto agli standard di bellezza

di Erica Lucia Noli
16 Ottobre 2021
in Costume & Società, Web & Social
🕓 4 MINUTI DI LETTURA
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📷 Adobe Stock | Maridav

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Labbra carnose, occhi grandi, pelle senza imperfezioni, ciglia lunghissime, zigomi alti e nasino delicato. Sui social media ognuno di noi può vedersi in questo modo utilizzando i cosiddetti filtri di “bellezza”. Ma di cosa si tratta?

Secondo il MIT Technology Review, tutto nasce con il concetto giapponese di “kawaii”, quell’ossessione per i caratteri fisionomici “graziosi” dei personaggi dei manga. A metà degli anni Novanta in Giappone arrivano le “purikura”, cabine per fototessere antenate dei filtri che consentivano di ritoccare le proprie foto. Nei primi anni 2000 nascono i primi cellulari con fotocamera frontale e inizia l’era dei selfie. Con essi, intorno al 2010, vengono resi disponibili sui social i primi filtri. Si tratta inizialmente di un artificio innocente usato per travestirsi virtualmente: permettono di diventare un cane, un gatto, di indossare un cappello o farsi crescere i baffi. Col tempo però si fanno sempre più ricercati e iniziano a passare dal travestimento all’“abbellimento”. Diventano dispositivi di fotoritocco che attraverso l’intelligenza artificiale permettono di affinare il viso, abbronzare e perfezionare la pelle, rimpicciolire il naso o ingrandire gli occhi. Nati quindi come un piacevole gioco, oggi i filtri di bellezza stanno diventando per tanti, soprattutto i più giovani, una vera ossessione di perfezione estetica.

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Secondo una ricerca della Mental Health Foundation, il 22% degli adulti e il 40% dei teenager dichiara che le foto sui social condizionano il modo in cui percepiscono il proprio aspetto fisico. Gli esperti, infatti, mettono in guardia sul rapporto tra la ripetuta modifica virtuale del proprio corpo e l’ansia o la depressione dovute ad un senso di inadeguatezza. Nel 1891 lo psichiatra italiano Enrico Morselli descrive per la prima volta in una sua opera il “disturbo da dismorfismo corporeo”, o più comunemente detto dismorfofobia. Si tratta di una patologia psichiatrica che consiste in una esagerata preoccupazione e senso di disagio del paziente per una propria caratteristica fisica che considera un difetto anche se agli altri risulta inesistente o appena percepibile.

Il chirurgo estetico Tijion Esho nel 2018 ha poi coniato il termine “Snapchat Dysmorphia” dopo aver notato che, mentre prima i pazienti gli portavano la foto di un personaggio famoso, adesso invece gli proponevano come modello ideale una foto di se stessi trasformata dai filtri. Gli specialisti oggi parlano più in generale di “filter dysmorphia”, il dismorfismo da filtro, quell’abuso dei filtri che può portare ad un’alterazione della realtà e della percezione del proprio corpo che il malato cerca di “correggere” tramite ripetuti interventi di chirurgia estetica. Nelle persone che ne sono affette la funzione ludica dei filtri viene quindi oltrepassata dal desiderio di adeguarsi agli standard di bellezza. A soffrire di dismorfofobia, secondo i dati dell’Istituto di Terapia Cognitiva e Comportamentale, è tra l’1,7 e il 2,5% della popolazione generale e in Italia sono colpite circa 500 mila persone.

A livello legislativo però qualcosa inizia a muoversi. Lo scorso 11 giugno in Norvegia una nuova legge ha reso obbligatorio per influencer e celebrità segnalare chiaramente attraverso un logo le immagini pubblicitarie ritoccate pubblicate sui loro profili social. Questo cambiamento è avvenuto grazie ad una proposta del Ministero per l’Infanzia e la Famiglia norvegese con lo scopo di combattere quei contenuti che mettono a rischio l’autostima e contribuiscono a provocare insicurezza, in particolare nei giovani. In Gran Bretagna l’Advertising Standard Authority si era già pronunciata a febbraio sulla questione proibendo l’utilizzo di filtri sui social che esasperavano l’effetto dei prodotti cosmetici o di skincare sponsorizzati e da quel momento era diventato obbligatorio dichiarare quando si stesse facendo uso di un filtro bellezza. In Italia ancora non esistono leggi in materia ma sono sempre di più gli influencer o le persone note che si pronunciano sul pericolo dei filtri di bellezza. Tra queste c’è Clio Zammatteo (in arte ClioMakeUp), che si è fatta paladina di un viso reale e non alterato, Aurora Ramazzotti e Matilda De Angelis, tra le prime a mostrarsi senza vergogna con i brufoli sui social e Emma Marrone, che solo pochi giorni fa ha lanciato su Instagram un’ennesima esortazione ad accettarsi per come si è senza snaturare la propria immagine.

Anche aziende e social stessi cercano di correre ai ripari incentivando e trasmettendo comportamenti sani e positivi. Facebook e Snapchat hanno provato con le etichette per segnalare agli utenti tutte le foto filtrate pubblicate sui social. Su Instagram compaiono sempre più filtri dedicati alla skin o body positivity. Alcuni marchi (tra cui la Dove con il suo Progetto Autostima e il lancio dell’hashtag #NoDigitalDistortion per la pubblicazione dei selfie non filtrati sui social) hanno promosso delle iniziative per contrastare l’utilizzo eccessivo dei filtri e per aiutare, in particolare le nuove generazioni, ad avere un buon rapporto con il proprio aspetto e una definizione più ampia della bellezza.

Tags: bellezzadismorfofobiafiltriInstagramsocial network
Erica Lucia Noli

Erica Lucia Noli

Nasce nel 1992 a Cagliari, città che ama e in cui vive. Laureata in Comunicazione e laureanda magistrale in Giornalismo all'Università Sapienza di Roma, aspira a diventare giornalista da quando è poco più che bambina. Si definisce una curiosa e attenta esploratrice del mondo.

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