La “sindrome del like”: quando la dipendenza dai social network può valere più della vita stessa

Scopriamo insieme cause, conseguenze e comportamenti da mettere in pratica per combattere questa ossessione che causa una vera schiavitù dalle piattaforme digitali, narcisismo, bisogno costante di approvazione sociale e timore di essere esclusi

📷 Depositphotos

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Al giorno d’oggi, possiamo dire di essere ancora padroni della nostra vita e del nostro tempo? Ne comprendiamo davvero il valore? In quella che ormai viene definita a tutti gli effetti la “società dei like” la risposta non può che essere negativa.

Nell’ultimo periodo, a mettere in luce i lati oscuri e problematici dei social network, con le gravi e talvolta irrimediabili conseguenze che ne derivano, è stata la tragedia di Casal Palocco, a Roma. Ha destato infatti sconcerto in tutta Italia la morte di Manuel, un bimbo di soli 5 anni, avvenuta a seguito dello scontro tra un SUV della Lamborghini e la Smart Forfour in cui il piccolo viaggiava con la madre e la sorellina, rimaste ferite. Come ben tutti sanno, non si è trattato di un tragico sinistro, in quella Lamborghini presa a noleggio, e che sfrecciava ad altissima velocità, c’era il noto gruppo di YouTuber ventenni “The Borderline” intento a portare avanti una pericolosa challenge. La sfida consisteva nel guidare per cinquanta ore senza soluzione di continuità, con tanto di video live per mostrare la sfida ai loro follower. Riprese che sono proseguite anche dopo lo schianto.

Al di là del dolore, delle vite distrutte e dell’assenza stessa di logica, c’è un’unica certezza: la vita di un bambino è stata meno importante di qualche “like”.

Ormai si è andati oltre. Il cellulare è diventato il nostro terzo braccio e la vita per molti si è ridotta alla conta dei follower e delle visualizzazioni ottenute, fonti spesso di un guadagno facile e, ormai, prima soglia di giudizio verso la vita del prossimo. Questa è la ragione del successo del fenomeno delle sfide on-line, della pubblicazione dei selfie – i famosi autoscatti realizzati nei posti più impensabili e talvolta pericolosi, anch’essi causa di numerosi incidenti e morti -, e della propensione a voler pubblicare ogni aspetto della propria vita quotidiana, in una corsa forsennata ad ottenere più consensi social possibili. 

Certo, il desiderio di piacere fa parte della natura umana da sempre, tuttavia, mentre prima si cercava l’approvazione delle persone vicine, i social network hanno stravolto questa tendenza, trasformandola in un’ossessione di cui molto spesso non si è consapevoli. Questa è l’inizio della dipendenza dai “like”, definita più propriamente “sindrome del like”.

Postare foto, scrivere frasi o commenti per aspettare quel riconoscibile suono del proprio smartphone che notifica l’arrivo di un nuovo “mi piace” è diventato per tanti un vero motivo di gioia, quasi una ragione di vita. Secondo uno studio realizzato dall’Università del North Carolina la spiegazione è scientifica. Ottenere un “like” sui social sembra comporti nell’organismo una scarica di dopamina, il neurotrasmettitore coinvolto nel senso del piacere e che è alla base dei fenomeni di dipendenza. I “mi piace” creano dunque delle sensazioni positive proprio perché il cervello rilascia la dopamina; perciò, la dipendenza dai social funziona esattamente come la dipendenza da droghe o alcool, ma non solo.

La schiavitù dagli smartphone e da tutti gli altri dispositivi digitali, chiamata “digital addiction”, porta a mettere in atto comportamenti compulsivi, analoghi a quelli causati dalla dipendenza dalle slot machine. Si avverte la necessità di controllare le vite degli altri per sopperire a solitudine, insicurezza e insoddisfazione personale ma, in questo modo, si cade nel tranello dei social. Questi, infatti, forniscono uno status di apparente benessere, a cui però segue una nuova sensazione di ansia e depressione che induce a riaprire la piattaforma. Connettersi su Instagram o Facebook ogni 2 minuti, aggiornare continuamente la bacheca, è un’ossessione che si chiama FOMO, acronimo di “Fear of missing out”, si tratta del disagio sociale che è causato dal timore di venire esclusi o perdersi qualcosa. 

In tutto questo è insito anche un certo narcisismo, sempre più presente in questo mondo 2.0. In effetti la crescente esposizione del sé è proliferata in concomitanza con il dilagare del web, tanto che si parla addirittura di un’epidemia di “narcisismo digitale”, soprattutto per coloro che abusano dei selfie per incrementare il loro desiderio di essere al centro dell’attenzione.

Ecco, dunque, le innumerevoli conseguenze dell’essere entrati a far parte del popolo della rete. Lo stesso Camath Palihapitiya, uno degli ideatori di Facebook, durante una lezione tenuta alla Stanford University ha affermato: “Mi sento tremendamente colpevole. Penso che quelli che abbiamo creato siano strumenti che fanno a pezzi il tessuto della società e il modo in cui funziona”.

È proprio così. Eravamo convinti che grazie alle piattaforme digitali saremmo riusciti a controllare il mondo, invece, sono queste piattaforme a controllare noi. Stiamo vivendo una vita in cui l’apparire ha sostituito l’essere.

Eppure, anche se sembra impossibile tornare indietro, si possono porre in atto alcuni comportamenti utili per provare ad uscire dalla trappola dei social. Fondamentale è prendere consapevolezza del fatto che non si può piacere a tutti e che un “mi piace” in più o in meno non deve rovinare la giornata. Bisogna iniziare ad immaginare un’esistenza in cui è possibile posare lo smartphone, utilizzandolo magari solo in determinate fasce orarie, per concentrarsi su qualche altra attività, porsi dei nuovi obiettivi da raggiungere, recuperare abitudini semplicima importanti come fare una passeggiata all’aria aperta, dedicarsi alla lettura, andare al cinema, e riassaporare così le sensazioni che solamente la vita reale può dare.

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