Selfie deaths: quando uno scatto può costare la vita

Dall’ossessione per l’autoscatto ai selfie estremi: analisi di un fenomeno globale che preoccupa psicologi, famiglie e istituzioni. Serve più consapevolezza per evitare tragedie

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Chi di noi non possiede un cellulare e non lo utilizza quotidianamente?

Compagno imprescindibile delle nostre giornate, lo smartphone è ormai quasi un’estensione delle nostre mani. Che sia per navigare in rete, controllare la posta elettronica, scorrere i social network o immortalare tanti momenti della nostra vita, può essere considerato a tutti gli effetti il principale strumento di comunicazione. E proprio tra le sue infinite funzioni, una ha preso piede più di tutte: il selfie, che ha ormai conquistato ogni fascia d’età e ogni angolo del mondo.

Traducibile in italiano come “autoscatto”, il termine inglese “selfie” è entrato stabilmente nel linguaggio comune. Nel 2013 l’Oxford English Dictionary lo ha eletto “parola dell’anno”, mentre in Italia è stato accolto per la prima volta nel vocabolario Zingarelli nel 2015.

Da novità curiosa, i selfie sono diventati una presenza costante nelle nostre vite, soprattutto con l’esplosione di piattaforme come Facebook, Instagram, Twitter e molte altre. Bastano pochi secondi per puntare la fotocamera verso se stessi e ottenere uno scatto pronto per essere condiviso sui social. Tutti – dalle persone comuni agli sportivi, dalle star del cinema e della televisione fino ai politici e ai Capi di Stato -, si concedono un autoscatto.

Ma quella dei selfie non è più soltanto una moda, per molti è diventata una vera e propria ossessione.

Secondo diversi professionisti della salute mentale, c’è qualcosa di patologico nella continua necessità di mettere se stessi al centro dell’immagine con l’unico scopo di ottenere gratificazione da un pubblico virtuale attraverso like, commenti e condivisioni. Il rischio è quello di sviluppare una dipendenza malsana, che porta a comportamenti sempre più estremi e, talvolta, pericolosi.

Oltre alla scarsa fiducia in se stessi e a tendenze narcisistiche, l’uso disfunzionale dei selfie può essere infatti associato a disturbi più profondi. Tra questi spiccano la dismorfofobia, ossia la percezione distorta del proprio aspetto fisico, e la FOMO (Fear of Missing Out), ovvero la paura costante di essere esclusi dai contesti sociali o di “perdersi qualcosa” nel mondo digitale, fino a sviluppare un senso di isolamento.

Ma la conseguenza più drammatica di questa spirale è rappresentata dalle cosiddette “selfie deaths”, chiamate anche “killfies” – dall’unione del verbo to kill, uccidere, e dal sostantivo selfie – per indicare gli autoscatti che si trasformano in tragedia, con la morte dell’autore a seguito di comportamenti esagerati, rischiosi o imprudenti, messi in atto con l’unico obiettivo di realizzare una foto ricordo che finisce, invece, per diventare un selfie postumo.

Le morti causate da selfie estremi rappresentano un fenomeno sempre più allarmante. Secondo le stime più recenti, negli ultimi quindici anni oltre 400 persone nel mondo hanno perso la vita nel tentativo di scattare un selfie o girare un video in contesti pericolosi. Il primato tragico spetta all’India, seguita da Russia, Stati Uniti e Pakistan. Si tratta perlopiù di giovani, spesso adolescenti, alla ricerca di uno scatto sensazionale in aree o situazioni ad alto rischio.

Tra i contesti più ricercati figurano zone ad alta quota o impervie, binari ferroviari, edifici e grattacieli privi di protezioni, ma anche selfie scattati alla guida, con animali selvatici o impugnando armi da cui può partire accidentalmente un colpo.

Proprio nel mese di luglio 2025, la cronaca italiana è stata scossa da alcuni tragici episodi di selfie deaths. Uno dei casi più drammatici riguarda un uomo di 48 anni di Samarate, in provincia di Varese, attaccato e ucciso da un orso in Romania mentre tentava di avvicinarlo per dargli del cibo e scattare una foto. Nel bellunese, invece, una ragazza di 15 anni ha perso la vita mentre si scattava un selfie lungo le sponde del Piave: era salita con un’amica su un masso per fare una foto, ma la roccia ha improvvisamente ceduto, facendo precipitare entrambe. E tornando indietro di qualche anno, un episodio simile si era verificato anche in Sardegna, nell’estate del 2017. Una turista ungherese di appena 15 anni morì nel mare di Costa Paradiso, a Trinità d’Agultu, in Gallura. Si trovava su una roccia a picco sul mare insieme alla zia, quando un’onda di sette metri la travolse proprio mentre cercavano di scattare una foto ricordo, senza lasciarle scampo.

Sono morti indicibili, inaccettabili, che lasciano un segno nella collettività.

Per ridurre l’incidenza di queste tragedie, spesso evitabili, si potrebbe intervenire con l’istituzione di “no-selfie zones” nelle località turistiche più a rischio, in particolare nei pressi di corsi d’acqua, scogliere o edifici elevati. Fondamentale, inoltre, sarebbe intervenire con campagne di prevenzione e sensibilizzazione, a cominciare dalle scuole.

Anche i genitori possono fare molto, cercando di instaurare un dialogo con i figli fondato sulla fiducia e sulla responsabilità, osservando eventuali comportamenti anomali, vigilando con discrezione sui loro profili online e, soprattutto, insegnando loro a dare più valore alla vita che ad uno scatto. Perché il selfie è un gioco, la vita, no.

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